Nel quadro della memoria l’immagine dominante è l’abito che indossavo. Non so perché, ma ogni volta che ripenso a quel primo ottobre di più di vent’anni fa, mi rivedo nel tailleur di lino ecru. Forse perché con quell’abito mi riprendevo un ruolo, un senso, un essere, quasi persi nei quattro mesi trascorsi davanti all’incubatrice.

Ora ne eravamo fuori e, come la mia minuscola bambina riusciva a indossare qualcosa di taglia zero, così anch’io potevo rientrare nei miei panni di madre e giovane insegnante. E il tailleur, allora, era quasi la divisa di una prof. Mi serviva rivestirmi di un ruolo perché il naufragio attraversato negli ultimi mesi aveva disseccato una parte di me che la cattedra vinta da due settimane aveva appena irrorato.

Entrammo così, abbracciate nel fresco di quel tessuto naturale, nello studio dell’oculista. Questo controllo, seguito a quello del neuropsichiatra, doveva fugare altri dubbi che assalivano la mente di mio marito, medico. So che era accanto a me, eppure nel quadro della memoria rimane sfocato, un acquerello dai contorni indistinti ma dalla voce chiara: la voce narrante la storia di nostra figlia con cui iniziammo la visita.

Sul lettino dell’oculista sembrava persa, mentre lui esplorava in silenzio i suoi occhi con dei piccoli strumenti. Me la restituì in braccio senza parlare e si accomodò dietro la scrivania togliendosi gli occhiali.
Ci sono silenzi che urlano.
Quando parlò, però, aveva una voce calma e professionale.
“Purtroppo è una ROP, al IV e V stadio”.
Acronimo mai sentito, totalmente estraneo al mio vissuto, indecifrabile senza una spiegazione. Bastò l’espressione di mio marito per capire che il naufragio non era finito e uno tsunami stava trascinando l’isola sott’acqua.

Domande, risposte, tentativi di chiarimenti, fragili ipotesi, verso l’imbuto di una parola che riassumeva tutto: cecità. Guardai da sott’acqua la luce verde verso l’aria, tentando di riemergere.
Avrei trovato il sistema per tenermi a galla e con me mia figlia, mio marito, la sorellina. Pensavo solo a questo mentre si snocciolavano le tappe da affrontare per confermare la diagnosi. Dovevo nuotare e riemergere, prendere almeno un po’ d’aria, quel tanto per sopportare la prossima onda e liberarmi del tailleur. Non si nuota con i vestiti impregnati d’acqua.

Ci misi diversi giorni per liberarmi dell’abito, in un caos mentale che mi portava continuamente sotto. Ecografie, ricoveri, viaggi della speranza, controlli e analisi si avvicendavano alle goffe bracciate che battevo sulle onde e alle tragiche bevute che mi soffocavano.
A un certo punto, mio marito ed io, cominciammo a nuotare sincronizzati, bevendo un po’ meno e riuscendo a tenere la nostra piccola a pelo d’acqua. Erano passati due anni dallo tsunami: ci sembrava quasi di saper vivere in quell’ambiente acquatico. Chissà avremmo potuto evolvere in dei pesci, in fondo nell’acqua la vista serve a poco.
Poi, una mattina d’inverno, battemmo forte contro uno scoglio. No, non saremmo diventati dei pesci, c’era della terra sotto i nostri piedi.
Era un luogo sconosciuto e non identificabile, si chiamava chiusura autistica, ma allora non lo sapevamo.

Era una roccia infinita, a picco sul mare, nella quale la nostra bambina si era rifugiata alzando una barriera che toccava il cielo. Una roccia liscia e senza appigli, apparentemente invincibile, specie per due naufraghi privi di qualsiasi attrezzatura.
Le prime persone che incontrammo erano dei teorici dell’arrampicata, ma non avevano mai scalato una parete così. I consigli e le indicazioni che davano ci facevano solo scivolare e cadere, ferendoci più forte le mani. Ci chiedevano di avere “costanza, pazienza e fiducia”, ma non erano in grado di prestarci un chiodo e una corda per tentare di arrampicarci.
E ogni giorno la parete sembrava più alta e più liscia.

Fu un prete di passaggio a indicarci dove, forse, potevamo trovare un chiodo. Ci imbarcammo in un ennesimo viaggio che ci portò a incontrare delle guide. La parete andava scalata e presto, così ci diedero i primi rudimenti di arrampicata, qualche chiodo e un po’ di speranza.

Ci vollero un paio d’anni per trovare una piccola cengia. Poca roba, ma finalmente uno spazio in cui riposare e da cui partiva, come una ferita, una spaccatura nella roccia. Forse era la via da intraprendere.
Ci infilammo là, nella spaccatura, in quel briciolo di contatto che avevamo stabilito con nostra figlia, attenti ogni passo a non spostare pietre, camminando in silenzio per risparmiare il fiato. Ora la roccia presentava degli enormi gradoni, nascosti dal canale nel quale c’eravamo avventurati.
Il primo si chiamava scuola.

Era altissimo e richiedeva un percorso di anni. Era un luogo apparentemente familiare ma irto di rovi, spine, pietre aguzze che ferivano e strappavano gli abiti. Pietismo, solitudine, paura, ignoranza, burocrazia erano le pietre che ci cadevano addosso provocando ostruzioni e rallentando il passo. Terapia e riabilitazione erano i fragili chiodi che conficcavamo nella roccia per tenerci in piedi. E poi quella fetta sottile di cielo blu che indicava un’apertura nel canalone. A quella puntavamo issandoci e scivolando sul gradone.

Ben presto incontrammo il viscido terreno del ritardo mentale.
Si era insinuato piano nella salita e adesso ricopriva la parete. Ci inoltravamo in una montagna che avrebbe scoraggiato chiunque e, infatti, chi ci scorgeva dal basso, scuoteva la testa. Ma quella fetta di blu che s’intravedeva, ci attraeva e ci chiamava ad andare oltre. Non avevamo davanti una vera e propria malattia, ma un percorso complesso e poco esplorato che poteva portare lontano purché accettassimo la sfida di vedere oltre la parete, riempiendoci gli occhi e il cuore di quella fetta di cielo.

Sull’aguzzo gradino della socializzazione restammo fermi e soli per molto tempo.
Quando passò un gruppetto di scout fummo presi per mano e girato l’angolo, come in una favola, scorgemmo un pianoro. Per la prima volta il blu fu qualcosa di più di una sottile fetta, c’era spazio sufficiente per vedere qualche stella. Gustando dei passi in pianura, cominciammo a scorgere la bellezza di questa montagna che ci parlava al cuore con la sua musica. Certo il pianoro era stretto e un po’ angusto ma qualche fiore ne stemperava l’austerità e il richiamo di quell’apertura sembrava incantato.

Sulla parete dell’adolescenza incontrammo una guida. Conosceva le rocce e portava con sé strumenti un po’ più sofisticati per affrontare la montagna. Aveva una passione per quei tipi di monti lisci e scabrosi e ne andava studiando i percorsi esplorando nuove vie. Ci insegnò finalmente ad arrampicare e ci sostenne quando osammo i passaggi più complessi che la parete richiedeva. Conosceva il mestiere e ci mise in grado di saper vedere gli appigli laddove sembrava non ci fossero. Avevamo il cuore più leggero perché in sua compagnia andavamo scoprendo la bellezza di quella montagna, riconoscendone i segreti e sapendo godere dei tramonti. Ci invitò ad andare avanti, intuendo l’altopiano.

Quando scavallammo l’ultimo balzo dell’adolescenza, ci si aprì il pascolo della vita adulta con una nebbiolina sottile che ne nascondeva l’orizzonte e si fondeva con il cielo. Respirammo quell’aria frizzante a pieni polmoni cercando con lo sguardo la nostra guida, ma ormai era altrove. Ci lasciava all’inizio di un nuovo percorso tutto da inventare lungo il quale, però, sapevamo muoverci meno goffamente e di cui avevamo imparato a gustare alcuni scorci. Dietro di noi qualcun altro si avventurava sulla montagna, rompendone la solitudine e imparando a riconoscerne le asperità e la bellezza.

Ora esiste un piccolo gruppo che ama questa montagna.
È gente pratica, entusiasta, che bada all’essenza, in jeans e scarponi. Arriva qua, sul pascolo della vita adulta, abbracciando con lo sguardo questo nuovo orizzonte e talvolta si ferma a riposare sul prato.
In certe giornate luminose si riesce a sentire una musica fra le rocce e gli amici della montagna si spingono avanti per ascoltarla meglio. Ci piace guardarli andare per il prato e ancor più vederli montare la loro tenda per un fine settimana.
Allora, nelle sere infuocate di rosso, ci accoccoliamo sul prato carezzando l’erba e nel silenzio carico di bellezza fantastichiamo su quest’altopiano, immaginando chi lo abiterà e sognando per un po’ che qualcuno abbia la forza e il coraggio di costruirci una piccola malga.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 150, 2020

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SOMMARIO

Editoriale
E sono 150! di Cristina Tersigni

Focus: Piccolo e grande schermo 
La varietà in cui viviamo di Giulia Galeotti
Interpreti di se stessi di Giulia Galeotti
Give Me Liberty di Claudio Cinus
Years and Years di Matteo Cinti
Quando ha recitato sottovento di Daniele Cogliandro
Due fratelli e la brigata inglese di Giulia Galeotti
...e per approfindire, c'è il nostro speciale Cinema e disabilità.

Intervista
Corrispondenze (e zoomate) dalla Russia di Cristina Tersigni

Testimonianze
Una piccola malga di Lucina Spaccia

Dall'archivio
Abitare la speranza di Mariangela Bertolini

Associazioni
Risposte concrete per bisogni concreti di Enrica Riera

Fede e Luce
Vicini a distanza di Angela Grassi

Spettacoli
La sfida di rileggere le scene del cinema di Matteo Cinti

Rubriche
Dialogo Aperto n. 150
Vita Fede e Luce n. 150

Libri
Il dono oscuro di John M. Hull
I bambini sono speranza di Papa Francesco
Diversi di Gian Antonio Stella
Tempo di imparare di Valeria Parrella

Diari
La differenza tra Shakespeare e Insinna di Benedetta Mattei
Come sono cambiato in questi anni di Giovanni Grossi

Una piccola malga ultima modifica: 2020-05-27T03:35:31+00:00 da Lucina Spaccia

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