Un giorno venne Luca, un ragazzo trasferitosi all’Axa, quartiere di Roma Sud, a proporre al mio gruppo post-cresima di formare una comunità nella nostra parrocchia: Fede e Luce, un gruppo rivolto alle persone con disabilità e alle loro famiglie, una comunità d’incontro, di festa, di condivisione. La mia catechista, Biancamaria ci aveva guidati nella crescita di ragazzi adolescenti e nella fede non ebbe esitazione: “Andate! È ora che mettiate in pratica”.
Così con altri giovani di vari gruppi parrocchiali formammo la comunità di Santa Melania. Lo spirito con cui iniziai fu: “Vabbè, facciamo quest’opera di bene”. Sì perché a 18 anni dedicare delle domeniche “agli handicappati” era qualcosa che pensavo di fare per compiacere Dio e consolidare l’identità di brava ragazza, aspettativa dei miei genitori, alla quale, in coscienza, volevo conformarmi. Ancora di più: volevo proprio essere “la migliore” su tutti i fronti. Scuola, sport, arti, forma fisica, la mia vita era un’affannosa ricerca di attività che potessero confermare quest’identità. Dunque per me era un “sacrificio interessato”, non era vera carità come dice san Paolo.
Però Luca non sembrava facesse un sacrificio a stare con i ragazzi con disabilità, era a suo agio, e mi aveva incuriosita con i racconti di questi gruppi. Ci spiegò come si svolgevano gli incontri chiamati casetta, mi colpì in particolare il discorso degli affidamenti e del quarto momento: avremmo dovuto provare, noi ragazzi (chiamati amici) a conoscere meglio una persona e una famiglia con cui provare ad instaurare un legame più intenso; magari poi andarli a trovare a casa, uscire insieme.
Così arrivò il giorno della nostra prima casetta. Subito mi colpì Francesca: una ragazza forse della mia età, dalla pelle molto chiara, occhi grandi azzurri e capelli chiari, emetteva strani suoni. Mi sembrò la ragazza “più difficile”, forse la più difficile da avvicinare rispetto agli altri ragazzi perché non parlava, apparentemente non sembrava comunicare in alcun modo: perfetta per chi sceglieva le sfide più ardue come me. Francesca sedeva con il capo chino, raccolta sulle sue mani che teneva vicino alla bocca e bagnava con la saliva; un aspetto spiacevole al contatto ma che mi sforzai di superare perché mi fece più compassione di tutti.
Mi sedetti vicino a lei, ogni tanto sollevava la testa dondolandola ma non capivo chi o cosa guardasse, per un bel po’ non seppi cosa fare; Francesca era lì ripiegata sulle sue mani umide, ogni tanto ondeggiava la testa e faceva delle pernacchiette con la bocca. Poi durante la preghiera iniziarono la musica e i canti. Dolce sentire e finalmente Francesca si aprì in un sorriso e allargò lo sguardo verso di me… Così il mio affidamento divenne ufficialmente Francesca. Conobbi la mamma, il papà e, più tardi, il fratello maggiore. Soprattutto la mamma m’insegnò tante cose su Francesca: le crisi, le medicine, quel che le piace e cosa le dà fastidio, il suo modo di comunicare, m’invitò ad andare oltre l’apparente chiusura, mi permise di avvicinarmi e di prendermi cura di lei durante gli incontri. Avevo timore, ma non mi sentivo sola, con gli altri amici e condividendo le titubanze e l’inesperienza iniziale tutto diventava più facile; quasi naturale fu partire per il primo campo insieme, piuttosto incoscienti, animati dall’amicizia, dal desiderio di fare del bene, insieme.
Iniziai ad andarla a trovare a casa, nella sua stanza, da sole, Francesca spesso si fermava con uno sguardo ravvicinato, puntava gli occhi dritti dritti dentro ai miei e ci leggevo domande: “Chi sei?” “Davvero vuoi imparare a volermi bene?”. Dentro di me rispondevo “Ci provo” piena d’insicurezza.
Fede e Luce inizialmente era una parte marginale della mia vita; voglio dire, la mia vita era altro: lo studio, gli amici, i flirt, lo sport… e solo dopo c’era Fede e Luce. Tutto però assunse un aspetto diverso quando incontrai i primi fallimenti: l’università andò male; mi lasciai con il mio fidanzato, mi venne una brutta depressione. Improvvisamente non ero più la migliore. Continuavo a frequentare Fede e Luce ma ciò che mi attraeva di più ora non erano i canti e le risa degli amici, i bans e gli scherzi, ma stavo volentieri vicino a Francesca, in silenzio. Quando le veniva una crisi mi sentivo particolarmente vicina a lei; le tenevo la mano, l’accarezzavo, condividevo l’angoscia che sentiva, l’insicurezza. Insieme aspettavamo che passasse, che il respiro si placasse; ogni tanto incrociavamo lo sguardo e insieme finalmente riposavamo.
Mi scoprii molto simile a lei, bisognosa di cose semplici: di sguardi pieni di tenerezza, di sorrisi luminosi, di stare una accanto all’altra. Provai pian piano un’altra gioia, non quella fatta di successi e di mete raggiunte ma la gioia di essere insieme nella fragilità, di condividere l’incertezza dei giorni e la tranquillità delle abitudini quotidiane. Rallentai.
Io che ero una schiacciasassi debbo a Francesca e alle persone come lei se ho imparato a riconoscere l’altro e i suoi bisogni, se sono finalmente uscita da me stessa, dal mio mondo perfetto e profondamente egoista. Ho imparato che ciò che mi fa sentire amata non sono i titoli che ho conseguito, lo svolgere un lavoro prestigioso, l’essere nel pieno della forma psico-fisica, l’ammirazione degli altri… Anzi tutte queste cose mi tenevano distante dalle persone, lontana e irraggiungibile. Finalmente ho avuto la mia “caduta da cavallo”: ciò che aborrivo, i miei insuccessi, mi hanno permesso di vedere più attentamente l’altro, riconoscere le sue ferite e scoprire che anche io sono fragile. Francesca è stata la mia piccola cappella sacra, dove potevo adorare il mistero della vita e dell’amore che passa per le ferite, a volte molto dolorose, di cui però ci si può prendere cura reciprocamente. Con infinita tenerezza.
Quest’esperienza mi ha talmente cambiata che ho deciso più tardi d’intraprendere gli studi da assistente sociale, ho anche sposato un assistente sociale che, come me, lavora con persone con disabilità. Sono mille altri i doni che Francesca e i ragazzi come lei mi hanno fatto: li custodisco tutti come tesori importanti da tirare fuori quando mi sento in difficoltà e ho bisogno di ritrovare l’essenziale. Sento una profonda gratitudine per quello che ho ricevuto, per il dono della vita di Francesca e degli altri piccoli. Ecco, questo è ciò che Francesca — salita in cielo 1 anno fa — e la mano di Dio hanno fatto nella mia vita. È troppo poco dire che mi hanno resa migliore.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 148, 2019

Ombre e Luci n. 148

SOMMARIO

Editoriale
Sconvolti e trasformati di Cristina Tersigni

Focus: L'incontro con la disabilità
La mia caduta da cavallo di Annick Donelli
Quegli anni tra Boston e Chicago di Luca Badetti
Tenera e magnetica di Serena Sillitto
Vittorio e la zia Minni di Maria Novella Pulieri

Intervista
Unica nel suo genere di Cristina Tersigni

Testimonianze
Lo sguardo sulla persona con disabilità di Nicla Bettazzi

Dall'archivio
Per la prima volta lontano da me di Rita Ozzimo

Associazioni
Una breccia nel muro di Cristina Tersigni

Fede e Luce
Chiamare per nome la paura della Comunità Edelweiss

Spettacoli
Non tutto è buio di Claudio Cinus

Rubriche
Dialogo Aperto n. 148
Vita Fede e Luce n. 148

Libri
La straniera di Claudia Durastanti
Who Is My Neighbor? di Amy-Jill Levine e Sandy Eisenberg Sasso
Vite straordinarie 2 di Superabile INAIL
Con occhi di padre di Igor Salamone

Diari
In curva sud di Benedetta Mattei
Mio cugino Paolo di Giovanni Grossi

La mia caduta da cavallo ultima modifica: 2020-02-02T14:23:47+00:00 da Annik Donelli

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