Un marito, tre figli, il lavoro, la casa, una vita relazionale nella norma, una salute precaria a seguito di un serio intervento chirurgico demolitivo da me subito anni addietro. Salute precaria sì, ammonimento dei medici ad un tenore di vita con molte precauzioni sì, ma non sapevo fin dove e fino a quanto.

Un giorno, un ritardo mestruale mi fa battere il cuore, di nascosto faccio il test: positivo. Subito mi dico: “Sì, nuovo amore, vieni!” Telefono al medico per ragguagliarlo e prevedere un consono programma di vita.

Lui convoca d’urgenza me e mio marito e ci prospetta, a tinte fosche, un’unica strada: aborto terapeutico!

Sono senza parole. Consulto altri medici e specialisti, tutti sono concordi per l’aborto. Alcuni con toni di umana comprensione, altri con infastidita intolleranza: “Ha già tre figli. Cosa vuole? Lasciarli orfani?”

Mio marito, mia sorella mi dicevano: “Mettiti al posto nostro.”

Non avevo, allora, una rete di solidarietà e sostegno quale quella conosciuta in seguito. Imboccavo un tunnel buio senza ritorno.

E quel tunnel sboccò in una mattina di giugno quando un medico a me distesa su un lettino disse: “È fatta!” Ed io, in una contemporaneità subitanea, sentii il calore di una ghigliottina all’interno del mio corpo.

Quanto ho finora scritto non deve far pensare assolutamente ad una autogiustificazione. Da quel 24 giugno, i sensi di colpa mi hanno afflitto con scudisciate senza fine.

Ho scritto il tutto per dovere di cronaca nella verità. E, soprattutto, perché non sapevo. No, non sapevo del dopoaborto.

Si è detto tanto a riguardo. Non mi ripeto, anche perché io riferisco la mia esperienza che è mia e soltanto mia.

Quella ghigliottina calata dentro mi ha accompagnato per tanto tempo, anche in termini organici, oltre che psicologici e spirituali.

I primi tempi li ho trascorsi in un ottenebramento tale che mi impediva di pensare. Poi ho iniziato e elaborare.

Ho dato un nome, un volto a quel bambino. Ne ho fatto il mio 4° figlio.

In seguito la mia esistenza ha conosciuto delle grazie: una intensa vita parrocchiale e spirituale, ha squarciato orizzonti a me sconosciuti.

Mi piacerebbe dire che oggi quella colpa è del tutto una “felice colpa”. Per molti aspetti lo è stata.

Dio Padre, buono e misericordioso, si è chinato su di me e, credo, mi abbia perdonato. Avevo tanto bisogno di perdono.

Ma in termini prettamente umani, quella colpa è là in un angolo del mio cuore, non se ne va.

Però, c’è un però. Quella colpa è in compagnia, in compagnia di un volto e di un nome perché quel bambino, anche lui, è sempre nel mio cuore: con lui parlo, a lui mi rivolgo, gli chiedo tante volte perdono. Ed ora che sono rimasta sola, è lui che spesso mi accarezza.

M.S., 2006

Io non sapevo ultima modifica: 2006-06-21T11:20:38+00:00 da Redazione

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