Chi sono?
Che strano rispondere a delle domande su se stessi, sono talmente abituata a fare io le interviste agli altri che questa è per me una situazione nuova.
Mi chiamo Gaia Valmarin, e sono nata il 17 maggio del 1967. Ho frequentato le scuole come privatista e mi sono diplomata all’istituto Magistrale con 54/60; poi mi sono iscritta alla Lumsa alla facoltà di psicologia e mi sono laureata con 110 e lode. Dopo ho conseguito la seconda laurea in materie letterarie con la stessa votazione. Già da quando facevo l’università collaboravo con riviste e associazioni di tutela per i disabili. Dal 1999 ho iniziato a collaborare con la Uildm Sezione Laziale; questo dal 2001 è diventato un vero lavoro retribuito con la qualifica prima di responsabile delle ricerche e documentazioni poi come Caporedattore della rivista Finestra Aperta e aiuto responsabile dell’ufficio stampa e comunicazione.

Come e quando ho scoperto la malattia?
Della Atrofia Miotrofica Spinale se ne sono accorti i miei genitori quando avevo 6 mesi perché vedevano che non reggevo la testa e non tenevo il tronco dritto da sola. Se ancora oggi c’è una grande ignoranza in merito da parte dei pediatri e dei medici di base figuratevi allora. Gli avevano detto che sarei morta nel giro di poco tempo per una crisi respiratoria. Ce ne sono state tante ma sono ancora qui!

Come l’ho percepita e come ho reagito?
Ovviamente i primi anni ero troppo piccola ma presto ho capito che c’era qualcosa che non andava; non mi ricordo una grande disperazione per le limitazioni dei movimenti, invece si una grande angoscia per le bronchiti che non mi facevano respirare. Proprio per paura di queste non ho frequentato la scuola e sì di pianti me ne sono fatti.

Come hanno reagito i miei genitori e i miei fratelli/sorelle?
I miei genitori reagirono molto male, perché erano tanto giovani e all’epoca la società non era come quella di adesso. Ora la disabilità nella maggioranza dei casi è vista come una cosa che può capitare. 40 anni fa ti facevano sentire in colpa se avevi un figlio così, la gente si girava per strada; alle volte si facevano anche il segno della croce. I miei genitori mi hanno fatto fare tutto quello che era possibile, gite, viaggi, visite ai musei e tante feste con gli altri bambini. Senza contare l’impegno nello studio. Anche quando gli altri parenti pensavano fossero soldi buttati. Alcuni anni dopo abbiamo iniziato un percorso di accoglienza e di affido familiare; sono passati per casa nostra bambini di tutti paesi e di tutte le età. Non potrei dire di sentirli come fratelli, bensì come figli vista la differenza di età. Una di queste creature si è fermata con noi e grazie ad un’ adozione speciale è diventata un personaggio stabile del nostro nucleo. Ora è diventata una ragazza grande ed indipendente; mi fa piacere ricordare come in un suo tema della quarta elementare scrisse di me “ Mia sorella è il mio angelo custode, il mio carabiniere, il mio capo scout, la mia banca ed è anche un po’ disabile”.

Che tipo di rapporto ho avuto con medici e cure?
Il mio rapporto con queste figure è stato veramente pessimo, sia dal punto di vista umano che come gestione della malattia. Se non ci fosse stata mia madre che mi curava di testa sua sarei veramente morta subito. Nessun rispetto verso la sensibilità e la dignità di un bambino. Parlavano come se fossi un pezzo di carne senza spiegarmi niente e senza rendermi partecipe di nulla. Tutt’ora noto una grande ignoranza e superficialità nel personale sanitario. Sempre molto tragici, ma mai pronti ad ascoltare il paziente e a provare soluzioni. lo lavoro in una struttura riabilitativa, ma anche adesso quando passo per il piano dove fanno le visite specialistiche ai bambini e vedo le famiglie in attesa, mi sento male come allora.

Che tipo di rapporto ho avuto con gli “altri”? Amici, compagni di scuola, parenti e “colleghi” di malattia…
Come ho detto non ho potuto frequentare la scuola, però appena è stato possibile mi hanno iscritto a catechismo. Sono stata fortunatissima perché la mia parrocchia Santa Maria Stella Mattutina di Belsito a Roma si è dimostrata una delle comunità più accoglienti e aperte che abbia mai conosciuto. Lì si sono formate le mie amicizie di una vita. È difficile far capire a chi legge che non stiamo parlando delle solite opere buone verso un disabile. lo facevo con loro tutte le attività, andavamo alle feste, in giro, insomma quello che vi potete immaginare faccia una ragazzina e un’adolescente qualsiasi io l’ho fatto con loro.
Questo continua anche adesso che siamo persone adulte e che nessuno di noi vive più lì. I loro figli hanno imparato a disegnare questa zia con tante rotelle sotto. I problemi cominciano con l’età adulta, perché le persone non è vero che ormai accettano così facilmente la disabilità, ci sono tanti pregiudizi e troppo imbarazzo. Molti sono convinti che una persona con un deficit fisico sia anche immatura e instabile. Vorrei farvi conoscere quante persone incontro che girano sui tacchi a spillo e sono veramente immature ed egocentriche. Ho tentato sempre di rivolgermi agli altri rendendomi conto che all’inizio il mio stato di immobilità può fare impressione. Ma comportandomi in modo spontaneo, comprensivo e allegro le loro difficoltà si sono superate. I miei compagni di malattia? Mica devono essere simpatici e cari solo perché condividiamo la distrofia. Comunque il mio più caro amico, compagno di lavoro e di avventure fantastiche ha la mia stessa patologia. Io che sono credente penso che c’è un senso ad ogni cosa.

Come reagisco di fronte all’apparente disagio degli altri nei confronti della malattia?
Mettendomi nei panni loro; ovvio che se ti trovi difronte ad una tizia che muove solo il viso, parla a voce bassa e si veste come una modella, un po’ spiazzati si resta! Io cerco di mettere le persone a loro agio anche se io sono molto timida. Nel lavoro no, perché le mie competenze sono pari a quelle degli altri.

La malattia ha impedito che realizzassi un mio sogno? Un mio progetto di vita?
Sicuramente si, io non ho una grande vocazione per il sociale. Mi sarebbe piaciuto occuparmi di moda, tipo forniture e acquisti per grandi circuiti commerciali o che si occupano di abbigliamento. Ho un animo artistico, mi piace tutto quello che riguarda l’allestimento di ambienti e la cura dell’immagine. Vista la gravità della mia patologia è praticamente impossibile realizzare ciò. Sono molto fortunata ad avere questo lavoro, c’è chi ha meno difficoltà di me e non ha niente. Inoltre la mia malattia rende più difficile la realizzazione di un rapporto affettivo equilibrato e stabile. Questo non credo dipenda solo dalla S.M.A ma dal destino e dalla mancanza di occasioni di frequentare gente sempre nuova.

Cosa invece sono riuscita a realizzare?
Ho realizzato tantissimo: nella mia associazione sono molto ben voluta e stimata. Ho tanti amici e persone care che mi soccorrono. Mi è stato insegnato che ho il dovere di sfruttare al massimo le mie possibilità, perché c’è chi avrebbe voluto fare tanto e mai nessuno ha creduto in lui. Mi capita di pensare che quando sto lì, triste a rimuginare spreco solo tempo. Infatti ogni giorno è un giorno nel quale possono capitare delle straordinarie sorprese.

Cosa vorrei ancora realizzare?
Obiettivo principale è creare un’atmosfera serena intorno a me, una sicurezza e una stabilità per il mio futuro. Non solo dal punto di vista lavorativo ma anche dal punto di vista degli affetti e dei sentimenti. Vorrei che tante difficoltà e tanti momenti duri mi rendessero una persona migliore e poter dare un senso o anche una semplice motivazione a chi mi incontra.

Gaia Valmarin , 2011

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.113

Vivere con la distrofia: intervista a me ultima modifica: 2011-03-04T17:30:14+00:00 da Gaia Valmarin

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