Quando parliamo di momenti di crisi nella vita di una persona pensiamo a degli eventi dolorosi o a dei periodi di fatica dovuti ad un problema particolare.
Generalmente la persona in crisi è consapevole di non star bene e, se non sta troppo male, riesce a chiedere aiuto o almeno manifesta disagio e si lascia di buon grado aiutare.
Eppure parliamo di crisi anche come tappe naturali, quasi fisiologiche, di rottura di uno stato di equilibrio consolidato: così il bambino è in crisi per la nascita di un fratellino, non è più solo, non è più il piccolo di casa; così l’adolescente non si riconosce davanti allo specchio e negli sguardi altrui e noi sorridiamo, quasi tranquillizati dal fatto che sia sopraggiunto un ingrato ma necessario periodo di crisi.

Di fronte ad una persona alla quale vogliamo bene e che vediamo soffrire oscilliamo solitamente tra il desiderio di evitarle una crisi e la speranza che questa crisi porti ad una crescita e ad una maturazione. Accompagnare la persona in crisi è tutto ciò che possiamo fare, starle vicino, sostenerla sapendo che non possiamo sostituirci a lei e che non possiamo definitivamente accollarci il suo dolore. L’adulto maturo che sta vicino a chi soffre è chi si prende la responsabilità di stare accanto, senza cedere al desiderio di onnipotenza di accollarsi tutto il disagio altrui, di sostituirsi a chi é in crisi.

Quando la persona in crisi si sente capita e accolta si può proporre un progetto che aiuti ad integrare la crisi, a trasformarla in fonte di energie positive. Per ogni persona, con o senza handicap mentale, la crisi è debolezza, paura di essere abbandonati, di essere soli, di essere da meno.

La differenza tra “handicap e normalità” è solo nel fatto che la persona con handicap mentale e i suoi genitori vivono spesso una condizione di triplice debolezza di fronte alla “crisi”:

  • è come se il dubbio di contare di meno aleggiasse di continuo;
  • la minore capacità di filtrare e razionalizzare i sentimenti, e quindi difendersi, rende sempre più vulnerabili;
  • le difficoltà di comunicazione possono impedire l’espressione della sofferenza.

Prendiamo la nascita di un fratello piccolo: è fastidiosa per tutti i bambini, ma un fratello non solo più piccolo di me ma anche più sano di me è una doppia minaccia.

Il genitore che vuole togliere del tutto questa sofferenza al figlio grande compirà grossi errori: metterà a repentaglio la sicurezza del neonato, darà al primogenito un irrealistico senso di onnipotenza. Il genitore dovrà agire per il bene di ENTRAMBI i figli, accettando la crisi. Il genitore dovrà anche capire il “surplus” di crisi del primogenito e dovrà fare quindi degli sforzi per riconoscere, lui per primo, i suoi dubbi, le sue angosce, le sue paure, per non trasmetterle ai figli. Ma dovrà amare il piccolo come il grande e proteggerlo anche di più perché più debole. Dovrà riaccettare entrambi i figli dopo la rottura di un equilibrio, dopo un evento che è di gioia ma che allo stesso tempo fa riaffiorare un dolore e tante domande.

Ogni bambino che cresce esplora nuovi ambienti e conosce nuove persone non rendendosi conto che potrebbe non essere accettato, anzi la fiducia di base che caratterizza il bambino che è stato correttamente accudito e amato dalla madre, lo aiuta ad esplorare con fiducia ciò che non conosce. Ciò non toglie che ogni novità è un rischio e che se si è molto diversi dagli altri il rischio è più alto. Così il primo giorno di scuola che richiede a molti bambini il superamento di una piccola o grande crisi, diventa per il bambino con handicap ad alto rischio di crisi ed espone anche i genitori ad una separazione che pone interrogativi simili, ma più intensi, profondi e angosciosi di quelli che si hanno per un figlio normale. Ce la farà? Gli altri saranno abbastanza attenti? Potrà fare a meno di me? Gli vorranno bene? Saprà farsi capire? Lo capiranno? In questo caso il genitore dovrà avere fiducia nel bambino con handicap come in quello senza handicap, e dovrà avere anche maggiore fiducia negli adulti che lo circondano. Dovrà aiutare però questi adulti ad essere degni della sua fiducia e a dare fiducia anche a suo figlio. Difficile certo, faticoso senza dubbio!!

Di fronte a una persona alla quale vogliamo bene e che vediamo soffrire, di solito oscilliamo tra il desiderio di evitarle la crisi e la speranza che la crisi porti a una crescita e a una maturazione.

Per giunta se questo complesso di equilibri viene meno e gli adulti si dimostrano poco affidabili la crisi è tremenda, fa malissimo: il bambino perde fiducia, il genitore capisce che le crisi per questo figlio possono diventare una lotta durissima e se il genitore concentra tutte le sue energie sulla lotta, ne avrà meno per l’ascolto profondo del figlio e per quest’ultimo la crisi sarà più dolorosa.

In generale, lo abbiamo detto, i momenti di crisi delle persone con handicap hanno la stessa origine delle nostre: un bisogno fondamentale di sicurezza e di accettazione viene meno. Ma le persone con un handicap mentale hanno spesso maggiore sensibilità e minore capacità di razionalizzazione. Così se uno mi spinge in autobus io penso che è un maleducato e forse glielo dico, mentre una donna della mia età con una sindrome di Down può sentirsi minacciata nella sua integrità fisica o psicologica, può pensare tante cose che le fanno male: che stava troppo in mezzo, che non è abbastanza bella, che non è stata nemmeno vista. E soffre… E la volta dopo se la crisi scatenata non viene riassorbita con l’aiuto di qualcuno che la tranquillizza, lei sarà ancora più vulnerabile, più esposta alla crisi. Se la donna con un handicap più grave girerà accompagnata da qualcuno, quel qualcuno, soprattutto se genitore, potrebbe avere sentimenti analoghi ai miei e quindi sdrammatizzare l’episodio, o al contrario sentimenti che lo mettono in una crisi analoga a quella della donna down.

Certo le grandi crisi sono altre: il fratello si sposa, la sorella ha un bambino, un amico cambia città, la mamma si ammala, qualcuno muore. Sono crisi che mettono di fronte a qualcosa di definitivo, nel senso del non ritorno. lo non avrò MAI un bambino, io non vedrò MAI più mio padre. Il MAI è tanto più doloroso in quanto corrisponde a un bisogno di SEMPRE.

Ad un bisogno di tutti e di sempre che in quel caso sembra inevitabilmente negato per sempre.

Il MAI non deve però diventare il sigillo di una diversità sostanziale. Per questo accompagnare le grandi crisi non può risolversi nel raccontare bugie. È necessario saper dire la verità nel senso di saper sottolineare quella parte di verità che fa bene, mostrando tuttavia di capire fino in fondo lo sgomento per la parte di verità dolorosa.

Accompagnare la persona in crisi è tutto ciò che possiamo fare: starle vicino, sostenerla sapendo che non possiamo sostituirci a lei e accollarci il suo dolore.

Fa male pensare di non avere un bambino ma la verità che fa bene è che diventi zio, fa male che l’amico viaggi per lavoro mentre io lavoro sempre nello stesso posto, ma la verità che fa bene è che scriverai una cartolina a un amico o la riceverai e lo andrai forse a trovare; fa male non vestirsi da sposa ma fa bene la verità che andrai ad una bella festa di matrimonio; fa male che tuo fratello se ne vada di casa con sua moglie ma fa bene la verità che sarai invitato nella «nuova casa di tuo fratello e di tua cognata, fa male non vedere più il tuo papà ma fa bene la verità che tuo padre ti ha voluto un bene matto e che qualcosa di lui continua a vivere grazie al fatto che tu esisti.

E in fondo per tutti noi questo esercizio è utile!!!

I momenti di crisi delle persone con un handicap richiedono:

  • un ascolto più attento perché non sempre il disagio viene espresso;
  • la ricerca di verità che fanno bene perché, a volte, la persona in uno stato di fragilità vede più facilmente quelle che fanno male;
  • la fantasia per fare un progetto che nasca dalla crisi e aiuti a superarla.

Qualcuno dirà che a questo punto potrebbe entrare in crisi il genitore o l’adulto di riferimento e quel qualcuno ha ragione, ma essere adulti vuol dire sapere di avere bisogno di aiuto e imparare a chiederlo per poi aiutare chi dipende da me.

Per concludere un invito banale: se in autobus pestiamo un piede ad una persona qualunque chiediamo scusa e finisce lì, ma se quella persona ha un handicap mentale dobbiamo aggiungere qualcosa di più premuroso e tranquillizzante al tempo stesso. Un “va tutto bene”, un “mi dispiace molto di non averla vista”, “che sbadata sono stata”, un sorriso, magari diventeremo più gentili con tutti, ma soprattutto cominceremo a individuare potenziali crisi grazie ad una maggiore empatia e a cercare modi per affrontare crisi in una prospettiva più attiva, come qualcosa che comunque ci riguarda e ci interpella.

Se entriamo in questa ottica il nostro tono di voce cambierà con un bimbo non vedente quando va via la luce, e prenderemo in braccio un neonato rimasto orfano in modo diverso: non penseremo più, nemmeno in questi due casi, “tanto non se ne accorgono”. Sapremo invece che i cambiamenti nell’ambiente che ci circonda, siano di tipo affettivo o climatico, coinvolgono tutti e che anche coloro che “non capiscono” avvertono le crisi e hanno bisogno di maggiore vicinanza.

Anna Aluffi Pentini (psicopedagogista), 2004

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.

Sommario

Editoriale

Convivenza, non coesistenza di M. Bertolini

La chiesa è per tutti?

Una mamma scrive ai vescovi di T. Turrini
Una messa poco dignitosa di Silvia Gusmano
“Per voi e per tutti” di Cristina Tersigni

Articoli

Come accompagnare piccole e grandi crisi di Anna Aluffi Pentini
Giulio racconta: pensavo sempre a lui
“Filippide” Correre insieme dal Tibet al Polo Nord di Huberta Pott
La Shiatsu dei volontari dell’APIS a Roma di Giulia Galeotti
Felice di vivere di Myriam

Rubriche

Dialogo aperto

Libri

Piovono mucche e nuovi libri di Tea Cabras

Come possiamo accompagnare piccole e grandi crisi ultima modifica: 2004-03-09T17:09:24+00:00 da Anna Aluffi Pentini

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