È, questa, una vicenda di donne e di consenso; di domande fatte e di domande che non si possono fare; di un principio giuridico fondamentale che una sorta di eugenetica moderna ripulita e garbata vorrebbe tacitare.
Qualche tempo fa una donna francese in attesa di un figlio con trisomia 21 scrive a CoorDown (rete di associazioni di persone con sindrome di Down): non sa, non conosce e così chiede delucidazioni su come potrebbe essere il futuro della bimba che aspetta. In risposta, l’associazione realizza il corto Dear Future Mom (2014): 15 persone con questa anomalia genetica di diversi Paesi, pur senza minimizzare le difficoltà che incontrano, spiegano che la loro vita può essere felice e degna. Presentata alle Nazioni Unite e pluripremiata (grande bottino al festival di Cannes e vincitore de “L’Anello debole” al festival di Capodarco come miglior campagna sociale diffusa in Rete), questa sorta di lettera alle mamme in attesa intende informare su cosa significhi essere una persona con la sindrome di Down. E intende far riflettere, attraverso le voci degli stessi protagonisti, sui tanti pregiudizi che le ruotano attorno.
Apprezzato ovunque, solo in Francia il corto incappa (forse lo ricorderete) nella censura: nel Paese dell’illuminismo, il Consiglio Superiore dell’Audiovisivo (Csa) ne proibisce la messa in onda in televisione perché «il filmato non può essere considerato come un messaggio d’interesse generale e la sua finalità può apparire ambigua e non suscitare un’adesione spontanea e consensuale». Secondo il Csa, inoltre, il corto può «disturbare la coscienza delle donne che, nel rispetto della legge, hanno fatto scelte diverse di vita personale». Precisando che l’intento non è assolutamente quello di fare una campagna pro life, la Fondazione Jerome Lejeune (membra di CoorDown) ingaggia una battaglia legale contro la decisione: tutelando la sensibilità delle donne che hanno scelto di abortire un feto con trisomia 21, sostiene che il Csa nega la libertà di espressione alle persone con sindrome di Down, libertà sancita dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità. Persone «che non solo hanno il diritto di essere felici, ma anche quello di esprimere il loro punto di vista ed essere ascoltati».
Ma proprio in queste settimane la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha dichiarato irricevibili le istanze avanzate: secondo Strasburgo, infatti, i ricorrenti non possono essere considerati vittime ai sensi della Convenzione per i diritti umani. E così, rifiutando di pronunciarsi nel merito della questione, la Cedu ha permesso che si mantenesse il divieto di trasmettere il filmato oltralpe (dove può essere invece mostrato nel corso di un programma che lo “inquadri e contestualizzi”).
Dear Future Mom, insomma, nato per rispondere a una domanda precisa, è colpevole in quanto informa, in quanto fa chiarezza attorno a qualcosa che non si conosce, o che si conosce male. Dice il codice che il consenso, per essere giuridicamente valido, deve essere libero e informato. Lo Stato, ovviamente, non può obbligare la persona a informarsi prima di decidere, ma certo non può nemmeno impedirle di farlo in nome del fatto che potrebbe offendere qualcuno che ha preso una decisione difforme. La vita di ciascuno di noi è fatta di scelte di cui poi ci pentiamo, di cui un giorno potremmo pentirci: papà Stato allora che fa, si adopera per farci vivere con i paraocchi?
Il sospetto che viene, è che sotto ci sia dell’altro. Potrebbe forse essere che per lo Stato la disabilità ha un costo (economico, sociale, politico) che, potendo, sarebbe meglio evitare? Non stiamo contestando, sia chiaro, il diritto di scelta della donna se interrompere o meno la gravidanza. Stiamo sollevando un dubbio: l’ordinamento che vuole sottrarre alle donne la possibilità di elaborare il loro consenso in modo libero e informato sta forse sospendendo quel diritto fondamentale in nome di una ripulita e garbata eugenetica? La barbarie delle “vite indegne di essere vissute” ha, forse, qualche sbiadita eco ancora oggi?
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