Anni fa un libro intitolato Chi sarei se potessi essere (OL n.77/2002) offriva riflessioni importanti su come la disabilità di un certo “Signor Down” divenga motivo per limitare le aspettative di un suo ruolo sociale attivo.

Egli, scelto perché chiaramente identificabile nella sua condizione di persona con una disabilità cognitiva, era emblema di tutti coloro che, “pur potendo divenire uomini e donne anche semplici, vengono invece trattenuti in un’infanzia perenne, fatti vivere in luoghi senza storia e senza tempo”. Vorremmo che per ognuno, nei modi adatti, sia invece possibile declinare il verbo adolescere al suo participio passato, adulto, come ci ricordava in un suo spettacolo Marco Paolini.
Adulti che, pur con un deficit intellettivo, una volta cresciuti, siano capaci di scegliere, di prendersi delle responsabilità, di avere dei diritti e dei doveri.

Non è facile. Ci spiega Patrizia Ciccani, pedagogista e autrice del libro che presentiamo, che sembra sempre più semplice percorrere scorciatoie per inquadrare, incasellare già ad un primo sguardo, la persona con una disabilità (e non solo questa), con quanto ne consegue per il suo presente e per il suo futuro. Scorciatoie economiche, pregiudizi, che ci guidano prepotenti nascondendoci percorsi alternativi e umanamente significativi; in un contesto tale la persona con una disabilità vive uno svantaggio ulteriore quando vede cambiare le aspettative nei suoi confronti in modo non sempre equilibrato.

Il rischio è di dare senso alla persona solo nel suo essere un assistito, medicalizzato, a volte neanche evangelizzato, “fatto santo a prescindere, oggetto di carità e non soggetto insieme a tutti gli altri fratelli” (S. Toschi, 1995).

È importante fare uno sforzo in più. Sappiamo che la disabilità, con la fatica che comporta, rende i passi compiuti maggiormente densi di significato in chi la vive e in chi la accompagna. Dobbiamo cercare di cambiare le nostre aspettative nei confronti di chi parte con uno svantaggio visto che, proprio queste aspettative, hanno un ruolo importante per delineare il nostro stare al mondo; aspettandoci che ognuno possa a suo modo correre per giungere al proprio traguardo. Non è un caso che Reuven Feuerstein -noto per il suo metodo psicopedagogico rivolto ai bambini con deficit intellettivi- a due giorni dalla nascita di un nipotino con la trisomia 21, dicesse al figlio: “da ora, da adesso, incominciamo a lavorare per preparare il suo matrimonio”.

Parlare di matrimonio per quel bambino dava a suo padre un nuovo sguardo sul figlio, lo apriva alla possibilità non tanto del matrimonio stesso ma di tutto quello che la sola possibilità significava: essere membro attivo di una comunità, del proprio quartiere, della propria Chiesa; con un lavoro adatto, ove possibile; capace di percorrere anche un cammino vocazionale. Così Cristina Acquistapace, pur corredata di un cromosoma in più, cresciuta dai suoi genitori “non come una figlia normale, ma come una figlia”, ha potuto compiere la sua scelta di consacrazione in pienezza. La possibilità di un inserimento lavorativo autentico è uno dei modi più efficaci di creare per l’individuo, nella dinamica dei diritti e dei doveri, una collocazione riconosciuta dalla comunità in cui vive.

Tuttavia è sempre necessario sostenere una cura dello sviluppo del senso del sé nella sua dimensione sociale – e non esclusivamente familiare – anche in chi non è in grado di lavorare  o in chi svolge la sua vita all’interno di un istituto (p. 15) ad esempio con il proprio quartiere o la propria parrocchia.

Così speriamo che, quando pure ostacolato da un sacco, ognuno possa comunque correre, chiamato ai traguardi che la vita ci dona. E non finirci intrappolato, in quel sacco.

Cristina Tersigni, 2016

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.133

Chiamati, tutti, al traguardo ultima modifica: 2016-03-25T13:30:53+00:00 da Cristina Tersigni

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