Interesse, ammirazione, imbarazzo, senso di inadeguatezza, a tratti rimorso, serenità e altri sentimenti ancora, diversi e contraddittori, hanno suscitato in me le pagine dello scorso numero di “Ombre e Luci su quella che la redazione ha definito “Un’attesa difficile”.

Ho vissuto la gravidanza come un periodo di incanto, un’esperienza stravolgente, unica pur se vissuta più volte, e che ogni volta, ad un tempo, mi ha fatto sentire la limitatezza della nostra condizione di creature e, insieme, percepire, seppure confusamente, un barlume di infinito, di quell’immagine di Dio che è in ciascuno di noi.

Ogni volta il mio sentire di mamma in attesa ha trovato conferma e conforto in un decorso sereno, in esami tranquillizzanti e anche perciò emozionanti, in parti regolari e nella nascita di bimbi “sani”. Ogni volta mi sono sentita rafforzata nella fede, ho riconosciuto nella via familiare la parte più consistente della mia vocazione, ho confermato le mie scelte adolescenziali e giovanili, ogni volta mi è sembrato che il mio matrimonio venisse fortificato, che la grazia di una unione felice si moltiplicasse perché arricchita dei frutti migliori dell’amore di cui si nutriva e si nutre.

E, accanto a tutto questo, un certo orgoglio, una fierezza mal celata come se, pur credendo che tutto proviene da Dio, in fondo mi riconoscessi un qualche merito nell’essere mamma, compiacendomi delle parole di chi, con affetto o a volte con meravigliata incredulità, sorrideva ai miei bambini.

Nessuna delle esperienze meno fortunate delle mie, vissute in famiglia o tra gli amici più cari, ha scalfito le mie certezze e cancellato del tutto il mio autocompiacimento: li ho considerati a lungo una sorta di incidenti, del tutto naturali, l’eccezione “normale” a una regola scientifica che nella sua straordinaria compiutezza ricalca la forza creatrice di Dio.

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Un giorno, poi, mi è stata proposta la lettura dello scorso numero di questa rivista e, soprattutto, mi è stato chiesto di scrivere la mia opinione di mamma credente. Mi sono sentita interrogata su qualcosa di profondamente intimo, nascosto, ho provato un forte imbarazzo —nell’esprimere un’opinione che rischiava di invadere e violare altre intimità, esperienze personali e privatissime che coinvolgono sentimenti cosi forti che spesso, per quel che ne so, non possono essere espressi che in modo limitato e spesso banale.

Ho cominciato a riflettere sulla mia storia, a confrontarla con le esperienze “difficili” a me più vicine: ho riconsiderato le aspettative di fronte all’ecografo, l’attesa dei risultati degli esami clinici, l’emozione sconvolgente del parto, la tenerezza del primo abbraccio al neonato e ho cercato di immaginare come sarebbe stato se invece di rassicurazioni avessi ricevuto referti preoccupanti o qualche anticipazione non attesa. E in queste riconsiderazioni sono riemerse paure che avevo rimosso, vissute soprattutto durante l’ultima gravidanza quando l’età più matura implicava un incremento del tasso di rischio; mi è tornato alla mente e ho riprovato nello stomaco quello stesso freddo, il panico di fronte al non detto, il terrore che qualcosa potesse “non andare bene”.

E ho dovuto ammettere quanto tutte le mie certezze, il mio autocompiacimento e la mia vanità fossero ipocrisia di fronte a questa eventualità; quanto facile sia credere quando la propria esperienza di vita ricalca la “bellezza di Dio” e quanta poca gloria ci sia in tutto questo: “non fanno forse così anche i pagani?”. Ho considerato la mia fede, povera, e mi sono chiesta come avrei vissuto io, come avremmo vissuto noi — come coppia e come famiglia — un’esperienza “difficile”.

Ho riconsiderato la vita delle famiglie che conosco che hanno accolto una vita “diversa”, ho letto e riletto le parole di quelle mamme sulla rivista, ho ripensato alle parole e agli sguardi di altre mamme che ho conosciuto in questa stessa situazione.

E mi è sembrato di non aver capito niente, o poco, 0 solo una piccola parte di quel che avrei potuto comprendere; di aver guardato, fino ad oggi, alla vita e alla maternità con una prospettiva sbagliata o, almeno, limitata: nessun incidente di percorso in una vita diversa ma lì, proprio lì, per assurdo lì, si può toccare quel pò di infinito, fino ad oggi cercato e solo a volte percepito in modo confuso. Nello sguardo indifeso, nelle membra abbandonate, nei movimenti incerti o poco coordinati di questi bimbi, qui forse, mi sembra ora di intuire, Dio si fa vivo in modo più forte, in queste esistenze di cui ci sfugge il senso e in quelle dedicate a loro totalmente, con tenerezza e senza alcun limite si può vedere Gesù, fatto carne e storia, vero e reale tra noi.

Quanto cammino, allora, ancora da fare per me: se questa intuizione è giusta, impone allora una svolta radicale, un mutamento assoluto di prospettiva per il quale non è sufficiente un’intuizione razionale o una riflessione occasionale.

Fssa richiede un moto del cuore che con passione si schiuda fuori di sé per abbracciare chi chiede solo di essere accolto; che distolga lo sguardo da sé e dalle sue aspettative per aprirlo sull’altro e sulla sua richiesta di amore; che smetta di cercare la propria felicità in se stesso ma scopra di poterla realizzare solo dedicandosi a realizzare la felicità dell’altro.

Ho provato disagio e imbarazzo per la mia istintiva vanità, perchè ho sentito una distanza tra me e chi accetta e vive la maternità non solo quando in essa si proiettano e si realizzano i propri desideri più profondi e il proprio bisogno di amore, ma anche quando questa richiede l’oblio totale di sé per colmare il bisogno di amore dell’altro. Sono grata ,.dell’occasione che mi è stata data e della luce che cosi si è insinuata ad illuminare il cuore e la mente je confido che la preghiera mi accompagni nel rinnovamento che sento essermi richiesto.

Cristiana Vigli, 2006

E ho ripensato tutto! ultima modifica: 2006-09-27T15:17:35+00:00 da Cristiana Vigli

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