I genitori italiani troveranno in queste pagine frasi che forse li irriteranno, soprattutto perché le case famiglia restano un sogno… Eppure, crediamo che la lettura di queste riflessioni, scritte da una mamma, potranno almeno preparare lo stato d’animo che permetta di lasciare andare il proprio figlio o la propria figlia via da casa. E questo non all’ultimo momento… E forse, lo speriamo, aiuteranno quelli più intraprendenti, a decidere che è da loro che deve partire l’iniziativa, anche per smuovere chi dovrà provvedere in prima persona…

Martino ha ventiquattro anni. E affetto da trisomia 21. Da bambino era vivacissimo, ma molto facile. Quando giunse all’adolescenza sapeva lavarsi e vestirsi. Lo sorvegliavo un po’, ma non c’era bisogno d’altro.
Ogni anno Martino ci lasciava per una quindicina di giorni. Mio marito ed io ne eravamo rattristati e poco entusiasti, ma imparavamo a vivere una rottura molto necessaria. Martino, per fortuna, affrontava bene queste separazioni.
Non porta alcun beneficio tenere a casa nostro figlio, anche se sembra felice; per di più questo non ci prepara per il futuro. I figli normali a volte trascorrono il week end da una zia: perché non dovrebbero farlo i ragazzi disabili?
Alla morte di mio marito avevo sessantacinque anni: soltanto allora mi resi conto che un giorno avrei dovuto affidare Martino ad altri. Sentii parlare di una casa famiglia e andai a una riunione dove avrei potuto ricevere qualche informazione. Non so quel che mi prese, ma domandai: «Potreste iscrivere Martino? Non subito, ma nei prossimi cinque anni». Mi fu risposto che c’era una lunghissima lista di attesa. Dissi: «Allora, se è possibile, iscrivetelo immediatamente». Non potevo più far marcia indietro. Piansi, quando tornai a casa. Avevo agito d’impulso, ma in realtà tutto questo stava nel mio subcosciente da anni e anni. Una parte di me sperava che Martino non sarebbe stato accettato e un’altra parte diceva: «Mio Dio, che farei se non me lo prendessero?» Mi sentivo in colpa. Non era come lasciarlo senza difesa? Mentalmente è ancora un bambino.

Piangevo su me stessa

Lasciare veramente andar via un figlio è una cosa alla quale non si vuole pensare… In realtà vi si pensa già quando è ancora un neonato.
Dopo la morte di mio marito presi coscienza, veramente, che anch’io potevo scomparire. Se almeno avessi potuto affidare Martino a qualcuno, sarei morta serenamente. Mia figlia e mia sorella erano d’accordo, ma questo mi dispiaceva. Martino è mio figlio. Una parte di me reagiva: sarebbero state ugualmente d’accordo se si fosse trattato di un loro figlio?
A quell’epoca non ebbi alcun aiuto significativo. L’incontro con l’assistente sociale, che parlava per la prima volta con la madre di un ragazzo disabile mentale, fu deludente. Discutemmo con Martino sulla sua partenza e lei gli disse: «Non ti piacerebbe, Martino, avere una bella stanza?». Martino, il mio caro ragazzo, rispose di sì. Il suo atteggiamento verso la partenza era così positivo che non poteva trasformarsi in un insuccesso… Non lo avrei mai lasciato andar via se avessi pensato che sarebbe stato infelice. In realtà piangevo su me stessa. Era come vivere un lutto! Perdevo mio figlio e da un certo punto di vista era come perdere me stessa. Mi sarei ritrovata sola. In più, economicamente, stavo meglio con Martino che da sola con la mia pensione.

«Non porta alcun beneficio tenere a casa nostro figlio, anche se appare felice»

Avevo bisogno di Martino

Durante tutti gli anni che egli aveva passato in un centro diurno ero uscita la mattina alle 8,30 per aspettare il pullman. Ogni sera mi affrettavo a rientrare a casa presa dal panico all’idea che non mi trovasse al suo ritorno. La vita presenta sempre «un debito» e un «credito». Il debito, con un figlio disabile, è il fatto che si è veramente incatenati per sempre. Ma il credito è la ricchezza di avere qualcuno che ci ama di un amore… incondizionato. Con la partenza di mio figlio avrei perduto tutto questo.
Malgrado il sollievo di avere trovato un posto per Martino e anche se ne ero felice per lui, non sopportavo l’idea della separazione. Che conflitto! Più tardi compresi che avevo bisogno di Martino più di quanto lui avesse bisogno di me. Più invecchio e più mi manca. Mi piace il contatto. Stavo dunque per esser privata di questa cosa così vitale per me, cioè di toccarlo?…Non avrei più potuto stringerlo fra le braccia, baciarlo?

Nella sua nuova casa

Il primo giorno il responsabile riunì i ventiquattro residenti perché potessimo conoscerci prendendo insieme una tazza di tè. Fu un momento felice! Martino si sistemò nella sua nuova stanza. Faceva parte di un gruppo di otto ragazzi ed era una situazione ideale. Lasciandolo non provai alcuna preoccupazione.
Del personale non posso dire che bene. La gente non farebbe questo lavoro se non vi si dedicasse totalmente. Posso rivolgermi ad uno qualsiasi di loro e domandare, per esempio, un caffè. Quando manca un bottone alla camicia di Martino so dove trovare il necessario per ricucirlo… Ogni settimana vado a trovare Martino. Ogni mese lui torna a casa per tre o quattro giorni e ne è felice. Certo, ci sono stati momenti di delusione. Per esempio quando la casa famiglia accolse anche qualche persona con disturbi del comportamento, come una ragazza che gridava durante i pasti. Martino ne fu turbato.
È tutta una questione di accettazione: se voi non accetterete la nuova situazione nessuno potrà farlo al posto vostro. Ora, quando Martino torna a casa, sono felice, e quando riparte non provo più tristezza. Mi rendo conto che ero stanchissima e che per anni ho dovuto sforzarmi. Oggi sono molto più rilassata. Non ho più bisogno di precipitarmi a casa per occuparmi di Martino. Mi adatto alla mia età; mi fa piacere vedere gli amici, sedermi a leggere, guardare la televisione…

Una vita realizzata

Ci si affligge per il proprio figlio disabile perché non avrà una vita sociale, non uscirà con la fidanzatina, non conoscerà le gioie della paternità. Mio figlio non avrà una vita realizzata come l’avevo immaginata. Ma ha una vita realizzata come ragazzo disabile. Quando vado da lui sento che sono a casa sua: tutti me lo fanno capire. Prima non bussavo mai alla sua porta; era solo il mio ragazzino che non trattavo mai veramente da adulto. Gli educatori me ne hanno fatto prendere coscienza. Essi gli danno la sua dignità. I nostri figli sono stati bambini così a lungo che «covarli» diventa una seconda natura; oltretutto Martino ha probabilmente sei anni di età mentale…
Ora ha una vita sociale che non aveva quando stava con me: con i suoi nuovi compagni di vita vanno insieme in città con l’automobile, vanno al pub o a fare delle spese. Partecipano a riunioni dove li si interpella e ci si consulta con loro, lo invece non domandavo mai il suo parere.

«Lasciare veramente andare via un figlio è una cosa alla quale non si vuole pensare»

Martino è diventato una persona più completa: ha una sua personalità.
Mio marito ed io abbiamo sempre pensato che ci fossero in lui delle potenzialità, ma non sapevamo come svilupparle. Amiamo i nostri figli, ci occupiamo di loro, ma non conosciamo il modo e gli strumenti necessari per la loro autonomia. Facciamo fatica a immaginare la loro vita in un contesto diverso.
Desideravo che mi fosse confermato che Martino sarebbe rimasto in quella casa famiglia per tutta la vita. Ma invecchiando, non potrebbe volere un giorno qualcosa di diverso, per esempio un monolocale? Mi è stato detto che inizierà fra poco un corso di cucina. Non è meraviglioso? Anche se non potrà mai cucinare gli si dà la possibilità di provare… Naturalmente la storia di ogni famiglia non si svolge sempre in modo così facile. Alcuni genitori non trovano una casa famiglia o rimangono molto delusi da quella che hanno trovato.

«Più invecchio e più mi manca»

Il problema della partenza è complicato dal fatto che la persona disabile non decide da sola di andarsene. Sono i genitori a prendere questa iniziativa per il figlio. Essi possono sembrare volerlo rifiutare, «metterlo alla porta» ed essere giudicati per questo. Sanno inoltre che, malgrado ogni loro cura di dare al figlio una sicurezza economica, un cambiamento di vita non farà sparire la sua vulnerabilità.
Ma voglio ugualmente dire a tutti: «Osservate quello che è successo a me. Lasciarlo andare è una cosa possibile. So quello che provate, anch’io ho pianto. Avete l’impressione che nessuno possa occuparsi dei vostri figli così bene come lo fate voi, ma conoscere il beneficio che otterranno vale tutte le lacrime, tutte le difficoltà. Posso soltanto dire che non provo più nemmeno il senso di solitudine. È come una ricompensa. Sì, è vero, se avete un figlio, dovete lasciarlo andar via».

Ann Richardson, 1996, (O et L n. 111)

Lascia che vada a vivere fuori di casa ultima modifica: 1996-06-14T17:33:04+00:00 da Redazione

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