1942: Una granata scoppia fra le mani di Jacques Lebreton, 20 anni soldato nel deserto della Libia.
D’ora in poi dovrà far fronte a un’esistenza senza occhi e senza mani. Dopo una vita di impegno, di lavoro professionale e di lotta spirituale oggi, con la maturità dovuta agli anni, egli ci descrive le tappe della presa di coscienza del suo handicap.

«Mio Dio, è troppo pesante per me»

[…] Per tornare al mio caso personale sono molto sorpreso nel constatare che, se può accadere che l’uomo ignori Dio, Dio non ignora mai l’uomo. Molto prima dell’incidente mi ero posto il problema dell’esistenza di Dio. Dio esiste? E se esiste, chi è? Nella mia ignoranza ho pregato. Egli non è stato per me il porta fortuna, il feticcio che mi ha evitato la prova. Non è venuto a togliermi la granata che mi è scoppiata tra le mani. «Che cosa abbiamo fatto contro il cielo per meritare questo?» Dio non è un padre che punisce. È un padre che ama, ma lascia all’uomo le sue responsabilità. Così, prima dell’incidente Dio mi aveva provocato perché io constatassi la mia povertà.
Dal mio letto di ospedale lo chiamai. E quando presi coscienza dello stato in cui mi trovavo gridai verso di lui il mio smarrimento e la mia legittima ribellione. Ma, invece di accusarlo per la mia sofferenza, portai questa sofferenza davanti a lui, dicendo: «è troppo pesante per me, non potrò portare tutto questo da solo». E un’esperienza sconvolgente gridare davanti a Dio la propria povertà perché, proprio in quel momento, egli ci rivela la sua ricchezza. Come dice Claudel: «Cristo non è venuto per spiegare la sofferenza, né per eliminarla, egli è venuto per riempirla della sua presenza».
L’altro giorno ho incontrato una giovane donna che mi ha parlato di una persona malata di cancro che, grazie a questo cancro, ha trovato un’altra dimensione nella sua vita. «Non dica questo, le ho risposto, altrimenti bisognerebbe augurarsi che tutti avessero il cancro» Il male è un male e bisogna lottare contro di esso; ma se l’uomo nel momento in cui soffre, è capace di gridare a Dio la propria impotenza, egli gli rivelerà la sua ricchezza.
La fede per me non è stata una fuga, ma ciò che ha reso feconda la mia sofferenza. «Io sono la Resurrezione e la Vita» ci ha detto Cristo. La fede insegnata da Gesù Cristo non è una fede contro natura, ma è una fede soprannaturale. La sua risposta è venuta dal profondo di me stesso, sotto forma di domanda: «come si può vivere senza la vista e senza le mani?» 11 solo fatto di porre la domanda fu già cominciare a rispondervi: fu scegliere la vita, assumere il mio handicap. Non mi era neppure venuto in mente di ributtare tra le mani del mio compagno quella granata che aveva disinnescato senza motivo e che aveva fatto scivolare fra le mie mani per sbarazzarsene. Questo incidente fu per me l’occasione di scoprire che l’uomo è infinitamente più grande dell’idea che si fa di se stesso. Ma è impossibile fronteggiare tutto questo da soli. Chi mi ha aiutato? Prima di tutto quella risposta che attribuisco a Dio. Poi quel sacerdote che ogni mattina ha portato al mio letto l’Eucarestia e che non mi ha mai detto: «domani non potrò venire, non avrò tempo». E ancora quella suora che conosceva il mio itinerario spirituale, ma che evitava qualsiasi sproloquio, e a volte veniva a dirmi: «sei triste… ti farò delle patatine fritte». Questo vale tutte le prediche. Poi c’è stata l’amicizia. Gli amici evitavano di svelarmi la gravità del mio stato. Probabilmente pensavano: «se fossi al suo posto non avrei fretta di sapere». Sei settimane dopo l’incidente mio fratello, che era venuto a visitarmi all’ospedale, mi disse ingenuamente: «sai, ora si costruiscono degli apparecchi ortopedici straordinari». Perché non mi disse: «ora si fanno delle straordinarie mani artificiali?». Intorno a me c’era la congiura del silenzio. Forse alcuni erano indifferenti e altri tacevano davanti alla propria impotenza ad aiutarmi. Quando scoprii da solo che non avevo più mani tentai di fare una domanda all’infermiera: «quando crede che potrò aprire le mani?» Lei uscì per andare nella stanza accanto: cercava una risposta, ma non ce ne erano. Quando tornò preferì tacere. Questo silenzio esprimeva la sua umiltà, la sua impotenza; ma, consapevole che un giorno avrei pur dovuto assumere il mio handicap, la sera tornò nella mia stanza.
Posò la mano sul mio braccio e mi domandò: «cosa c’è che non va?». Probabilmente lo aveva indovinato. Quando le risposi, «ho saputo che non ho più le mani» non disse nulla. La sua mano si contrasse sul mio braccio e da quel giorno la sento come se fosse ancora là.
Non ho mai incontrato nessuno che mi desse una risposta più cristiana di quella.
Eppure quella donna non era credente. Ma quel giorno fu davanti a me il silenzio di Dio, la compassione. Si scusò: «capisce, Giacomo, non era possibile dirglielo». Come se avesse avuto qualcosa da farsi perdonare. Cristo ha rifiutato la corona che la folla avrebbe voluto mettergli sulla testa dopo la moltiplicazione dei pani, ma non ha rifugiato la corona di spine: «Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me». La fede non è una resa di fronte a una situazione, è un incontro.

Jacques Lebreton, 1994
(O.et L. n. 104)


Qualità della vita nelle persone sordocieche

Sono usciti gli Atti della V Conferenza Mondiale Hellen Keller, tenuta in Italia dal 25 al 30 settembre scorso sul tema «Qualità della vita delle persone sordo-cieche». Responsabile dell’organizzazione è stata La Lega del Filo d’Oro. Questa associazione fa un lavoro di qualità eccezionale in favore delle persone sordo-cieche (vedere «Ombre e Luci» n° 1 1986) e siamo contenti di segnalare che adesso ha un punto di riferimento a Roma: Piazza Mattei, 10 -Scala D int. 2 – 00186 Roma – tei. 06/688.020.28.

Durante il convegno il giovane sordo-cieco giapponese Satoshi Fukushima ha parlato dell’educazione delle persone sordo-cieche. Riportiamo qualcuna delle sue parole che, in forma simbolica, possono far riflettere tutti noi sulla qualità della vita di tutte le persone con handicap.

Se si paragona la vita umana a un’ascensione in montagna, si vede che i più dotati possono arrampicarsi su pareti molto ripide e raggiungere, la vetta, con il grande piacere di aver superato enormi difficoltà e la profonda emozione di guardare il mondo dall’alto. D’altro canto, persone meno dotate possono fermarsi a metà salita o non riuscire nemmeno ad arrampicarsi, ma ai piedi del monte ammireranno commosse i piccoli fiori che crescono in un angolo dimenticato e attraverseranno sorridendo un torrentello con acque gorgoglianti.

Secondo la mia opinione, l’educazione della persona sordocieca — come, del resto, quella di chiunque altro — deve servire soprattutto a incoraggiarla, a darle quella sicurezza necessaria per apprezzare la ricchezza della propria vita.

Il lavoro degli educatori, dei riabilitatori, degli interpreti consiste sopratrutto nell’applicazione pratica dell’amore.
Quando «parlate» alle persone sordo-cieche, esse capteranno il calore del vostro amore ad ogni parola. E sarà come se, nella foschia della loro notte silenziosa, tante piccole stelle, una dopo l’altra, iniziassero a mostrare la loro luce vibrante. Quando «il cielo della notte silenziosa» sarà punteggiato dalla luce tremula di queste piccole stelle, la qualità della vita delle persone sordo-cieche si sarà arricchita di tanto amore.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.45, 1994

Sommario

Editoriale

Perché ci hai abbandonato? di M. Bertolini

Dio così lontano e così vicino

Mi sentii tradita di una mamma
Ma Lui dov’era? di G. Cosmai
A scuola con Chicco in braccio della mamma di Chicco
La fede è un incontro di J. Lebreton

Altri articoli

L’armadio dei giocattoli di M.C. Chivot
Inaugurazione di Casa Loïc di A. Mazzarotto
La tenerezza di Dio Anonimo brasiliano
Convegno sulla catechesi nell’area dell’handicap

Rubriche

Dialogo aperto
Vita Fede e Luce
Proviamoci un'altra volta

Libri

Due libri sulla psicologia, P. Vitz e P.Raab
Competere col dolore, F. Guglielmotti
Il mio cielo è diverso, F. Emer
Val la pena di vivere, U. Peressini

La fede è un incontro ultima modifica: 1994-03-16T17:00:49+00:00 da Redazione

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