Gli articoli di questo numero presentano le esperienze di un giovane disabile, un'amica, un fratello, due famiglie (qui e qui), una mamma sola col suo bambino. Essi rappresentano la "famiglia" di persone di cui "ombre e Luci" parla e a cui si rivolge.

L’ultimo dei tre figli di Monica e di Arnaldo è Alessio ed è nato gravemente handicappato. Per la famiglia , a questa sofferenza se ne aggiunge un’altra , pesantissima. Il rapporto fra padre e madre è dilaniato a causa di questo figlio. Qui la mamma si domanda come vivere la speranza.
Alessio ha quasi quindici anni. Ha una paralisi cerebrale e si muove carponi o trascinandosi seduto. É profondamente sordo, non c’è possibilità di mettergli un apparecchio, ed è perciò anche muto.
Beve soltanto con il biberon, mangia da solo, ma ogni cucchiaiata per metà gli cade dalla bocca; sbava, perché non riesce ad inghiottire, e gran parte del suo pasto rimane sulla tavola e sul pavimento.

Il rifiuto del padre

La gravità dello stato di questo ragazzo «profondamente colpito» spiega in parte le reazioni del papà nei suoi confronti. Per Arnaldo vedere il figlio rappresenta una sofferenza insopportabile. Gli psichiatri la chiamano una «ferita narcisistica». Il bambino, questo «specchio di noi stessi» rimanda un’immagine sfigurata. Ciò è ancora più intollerabile quando si tratta di un padre ed un figlio. Per il padre il neonato non è ancora un bambino «suo» come per la mamma che l’ha portato dentro di sè per nove mesi.
Oltre a questa sofferenza Arnaldo ha un handicap particolare, quello di essere un medico anestesista-rianimatore. «Come, direte, un medico non dovrebbe avere capacità maggiori di accogliere un figlio malato?». Ebbene, non è esattamente così. Credo che molto spesso nella scelta della professione medica ci sia una grande angoscia per la malattia e per la morte. Un bambino con il cervello gravemente danneggiato è la prova vivente dell’impotenza della professione medica. C’è inumanità in questo medico? No; mio marito è molto gentile con i suoi malati; ma, uscito dall’ospedale, non vuole ritrovarli a casa propria.
Anche questo è umano. D’altra parte, la sua esperienza professionale lo invita alla prudenza. Ha visto troppe famiglie tagliate fuori dal mondo esterno che vivono soltanto per il loro malato. Non vuole che i due fratelli abbiano la vita «sciupata» dalla presenza del fratello minore «anormale». Preoccupazione legittima… L’angoscia e la sofferenza di Arnaldo davanti ad Alessio sono tali da sembrare insormontabili. L’unica soluzione che gli sembra possibile è quella di eliminare il problema: che il bambino sparisca, che sia preso in carico da un istituto, e che non se ne parli più. (Del resto questa è la reazione di tutta la società, sia che si parli di aborto terapeutico che di istituti per anziani, anormali, delinquenti, tutta un’umanità di seconda categoria).
Alessio fu dunque accolto molto piccolo in un istituto specializzato. Era un istituto, grazie alla Provvidenza, ben gestito, dove il bambino si trovò bene e come a casa sua perché amato da tutti.

Finii per sentirmi in colpa quando mi occupavo di Alessio. Quando era a casa non prendevo mai un momento per coccolarlo o per giocare con lui. Era proibito amarlo

Questa decisione per me fu straziante, ma necessaria. Avevo posto la condizione che l’allontanamento di Alessio sarebbe stato «compensato» da frequenti visite a casa. Malgrado tutto, desideravo vivere almeno per alcuni periodi insieme a mio figlio e stabilire con lui legami di affetto. Però, man mano che il bambino cresceva e che i caratteri «anormali» diventavano più marcati, il padre sopportava sempre meno la sua vista. S’istaurò allora fra noi una guerra sotterranea perché le visite dovevano essere distanziate e i soggiorni di Alessio a casa più brevi.
Il pellegrinaggio di Fede e Luce a Lourdes, che io feci insieme a lui a Pasqua del 1991, aggravò molto queste tensioni. A Fede e Luce Alessio ebbe di nuovo un posto! Quando lo raccontai ci fu un altro scatenamento di violenza. Arnaldo rifiutò categoricamente di incontrare persone capaci di accoglienza nei confronti di un ragazzo handicappato: le vedeva come accusatori della sua incapacità e ciò lo faceva sentire colpevole.
Il cerchio si chiuse. Il sistema in cui si rifiutano tutte le mani tese e si negano la vita e l’amore, è un sistema ben chiuso.

Gli effetti sulla famiglia

Questo rifiuto turbò la vita di tutta la famiglia e soprattutto rappresentò una lacerazione nella coppia. Soffrivo intensamente che mio marito rifiutasse la parte fondamentale di me stessa che era quella di essere la madre di mio figlio: se rifiutava questa parte ciò significava che non mi amava. Anche lui soffriva: se io non capivo e non rispettavo questa sua angoscia era come se non lo amassi. Alessio era colui che implacabilmente rivelava questo disaccordo.
L’effetto di tutto questo fu per Alessio una catastrofe. Il rifiuto aumentò la sua tendenza a ripiegarsi su comportamenti «autistici». I bruschi gesti di Arnaldo per allontanarlo lo facevano urlare e lo mettevano in stati acuti di angoscia che lo portavano a colpirsi violentemente la testa. Ciò riattivava l’angoscia del padre.
Quanto a me, l’affermazione ripetuta come un ritornello che «non cera niente da fare, che per Alessio tutto era uguale e che non valeva la pena di fare alcunché » finì per smobilitarmi. Non riuscivo a sopportare i gesti e gli sguardi che uccidono: non guardarlo mai, non chiedere mai sue notizie, farlo sparire con brutalità in camera sua, nascondere sistematicamente la sedia a rotelle e la carrozzella per cancellare le tracce della sua presenza. Tutti questi atteggiamenti mi davano la voglia di urlare… Ma la cosa più grave è che finii per sentirmi in colpa quando mi occupavo di Alessio. Quando era a casa non mi prendevo mai un momento per coccolarlo o per giocare con lui. Era proibito amarlo.
I due fratellini maggiori quando erano piccoli volevano bene ad Alessio, non sentivano il peso di questo conflitto esacerbato e dovuto a lui. Quando furono adolescenti, al momento di costruire la loro personalità, avrebbero avuto bisogno di un po’ di pace. Ma il padre non li aiutò a «digerire» il dramma nel quale io stessa certamente non fui sempre un elemento di serenità.

La reazione più comune della società è che il bambino con handicap sparisca o che sia preso in carico da un istituto e non se ne parli più

La via della speranza

Spesso mi sono interrogata a proposito di una eventuale separazione. A volte mi è apparsa come un’operazione chirurgica dolorosa ma necessaria, a volte come una tentazione dovuta alla disperazione. Il beneficio sarebbe stato quello di avere una vita e una casa tutte per me dove Alessio potesse avere il suo posto e dove io sarei stata libera di amarlo e di ricevere i suoi amici. Un’idea che mi attirava. Ciò malgrado, ho rifiutato questa possibilità perché ho orrore del divorzio. L’idea dello smembramento di ciò che, nonostante tutto, era stato costruito durante vent’anni, mi faceva star male. La nostra vita di coppia funziona per tutto quello che non riguarda Alessio. Inoltre, il divorzio non è una via consigliata da Cristo. Per questo rimango qui. Ma come non affondare nella disperazione e nella nevrastenia? Come ritrovare la via della speranza?
Prima di tutto ha la grande fortuna che Alessio si trovi bene nel suo istituto. Sono continuamente piena di gratitudine verso il Signore che esistano luoghi come questo centro dove i ragazzi sono amati come sono e vengono curati con un’attenzione costante. Non tutti hanno questa fortuna. Poi c’è stata la grazia immensa del pellegrinaggio a Lourdes dove ho incontrato sguardi che fanno vivere, e gesti che ad ogni momento dicevano: «Alessio ha un valore per me e gli voglio bene». Questi sguardi e questi gesti sono stati il segno percepibile dell’amore di Dio e hanno ridato a me e ad Alessio un posto nella comunità umana.
Da parte mia lavoro con tutta la mia intelligenza per aprire altre vie di speranza. Per quanto riguarda Alessio, cerco di migliorare il suo rapporto con le persone che si occupano di lui; per quanto riguarda me stessa, cerco di coltivare «gli sguardi che fanno vivere». Ho inoltre il vasto campo della mia costruzione interiore. Ho ancora tanta strada da fare per esser simile a Colui che sopportò gli sputi senza dire niente! Con Alessio sono come la talpa che lavora nell’oscurità per scavare gallerie ed aprire l’entrata della cittadella! Cerco di parlare, parlare intorno a me senza stancarmi per rompere il muro di silenzio che lo circonda e per fare in modo che anche gli amici possano far scivolare una parola capace di aprire una porta.
Cerco inoltre di suscitare occasioni di incontro fra i miei due figli maggiori e giovani di FEDE E LUCE per dar loro la possibilità di guardare il fratello con occhi diversi. Faccio questo perché non sanno come entrare in contatto con lui: Alessio è troppo lontano dal loro mondo di competizione.
La grazia di Dio farà il resto. Per questo intervento del Buon Dio prego quanto posso, cioè male. Cosò domando aiuto a Maria: «Maria, accogli le nostre preghiere. Completale. Purificale. Presentale a tuo Figlio». Mi sono anche confidata a una Piccola Sorella che è molto più fedele di me nella preghiera. Ho domandato a molti amici di pregare per tutta la mia famiglia. Per questo so che è affidata alle mani di Dio…
« E vero che siamo salvati, ma nella speranza. (…) Noi speriamo in ciò che non vediamo ancora, lo aspettiamo con perseveranza». (Rm. 8, 22-27).

Ho sperimentato che c’è veramente una gioia e una dinamica nella Speranza: è stata questa la grazia di Lourdes.
(O. et L. n. 100).

Monica L., 1993

Proibito amarlo ultima modifica: 1993-03-18T14:15:31+00:00 da Redazione

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