Chi, nella scuola deve occuparsi di bambini portatori di handicap, senza avere una preparazione teorica e pratica particolare, si trova davanti a problemi pressoché insolubili. Un aiuto efficace può trovarlo nel libro «Il bambino difficile» di Thomas J. Weihs.

Weihs è medico e direttore, in Scozia, delle scuole del «Movimento Camphill». I centri Camphill sono comunità integrate di vita e di lavoro sorte dopo il 1940 in Scozia, in Inghilterra e in diversi altri paesi. Essi comprendono comunità-villaggi, foyer protetti, scuole e scuole-internato.

Il dr. Weihs collabora in Gran Bretagna ed in campo internazionale, come scrittore e conferenziere, al cambiamento del «modo di interpretare e comprendere l’anormale» e a sviluppare e perfezionare «nuove forme sociali che permettano l’applicazione dell’impulso terapeutico che guida e anima (…) le comunità Camphill» (dalla prefazione all’edizione del dr. Leonardo Fulgosi).

Il libro è frutto di «30 anni di vita intimamente vissuta con i bambini handicappati», come tale, si evidenzia fin dalle prime pagine.

Il Weihs si pone inizialmente la domanda che sempre ci si rivolge dinanzi a un bambino «diverso» che ci viene affidato: «Come è? Perché è così? Può essere curato? Educato? Aiutato? Guarito?». L’autore sostiene che per rispondere a queste domande non è più sufficiente ricorrere, assumendole come base per il lavoro futuro, alle classificazioni tradizionali di handicap fisici, psichici e di disadattamento, perché le giudica «astrazioni», utili dal punto di vista amministrativo, ma non applicabili all’individuo singolo nel quale, in realtà, tali categorie si sovrappongono ed interferiscono. La minorazione fisica ed organica comporta infatti sempre problemi di carattere emozionale, così come il bambino «ritardato mentalmente» può avere sofferto di un processo infiammatorio del cervello anche se appare in perfette condizioni fisiche. L’autore giudica altrettanto insufficiente il concetto di «età mentale» che può essere considerata «elemento significativo» ma non certo l’unica misura per giudicare il «livello di maturità» o lo «sviluppo mentale».

Come classificazione alternativa il dr. Weihs propone «l’idea dello sviluppo» che significa «prendere lo studio del mancato sviluppo, come base per la valutazione dei bambini handicappati».

Dopo avere illustrato quella che è la normale trasformazione fisica e psichica di un bambino nei primi anni di vita, l’autore esamina le differenti forme di handicap dello sviluppo, o gli «insuccessi dello sviluppo» che non sono tuttavia mai da considerarsi come «condizioni isolate» ma «fenomeni che possono combinarsi con altri in molteplici maniere»; così come uno sviluppo normale è soltanto un «armonioso equilibrio tra le tante possibili aberrazioni e insuccessi ai quali lo sviluppo è sottoposto».

A sostegno della sua tesi l’autore descrive a grandi linee l’aspetto fisico, il comportamento, le sofferenze, le difficoltà nell’impatto con la realtà, dei bambini macrocefali, afasici, ciechi,… mongoloidi, autistici, sempre evidenziandone i sintomi interpretabili come deviazioni, arresti o ritardi di uno sviluppo fisiologico naturale.

Il tono usato non è mai solo scientifico o impersonale, e nemmeno pietistico; rivela invece una grande e civile partecipazione, una lunga famigliarità con gli handicap descritti, qualità che gli permettono una sicura e sottile interpretazione di atteggiamenti e tendenze. Inoltre l’autore mi sembra dare con queste pagine una chiara dimostrazione di quanto egli stesso ha premesso fin dall’inizio a proposito del rapporto con il ragazzo handicappato:

«… si deve guardare al suo comportamento, alle sue esibizioni, alle sue capacità ed incapacità, in relazione a ciò che è sempre perfetto in lui: l’esperienza della sua personalità, il suo proprio io».

Alcune descrizioni possono sorprendere il lettore meno preparato, ma se si ha solo qualche conoscenza diretta di ragazzi portatori di handicap, si deve convenire con l’autore, e si ha come l’impressione di sentire espresso chiaramente ciò che, a volte, si era solo intuito in modo confuso.

Così accade quando l’autore parla delle «maniere principesche dei bambini macrocefali», della loro ipersensibilità ed irritabilità ma anche della precocità del loro linguaggio e della loro propensione a rendersi utili…», o quando parla del «… quasi represso ma sempre inerente desiderio di normalità che obbliga il bambino autistico a cercare rifugio in una moltitudine di tabù e di rituali tentati per cercare di ottenere un tipo di comunicabilità che non lo neghi e non lo coinvolga…».

E del bambino Down è detto: «… gli dovrebbe essere semplicemente concesso di poter trarre profitto, quanto qualsiasi altro, da tutto ciò che viene messo a disposizione degli altri bambini e gli dovrebbe essere permesso non soltanto di essere utile a se stesso ma anche agli altri». Come non pensare, per contrasto, a tanti discorsi complessi, e a volte superflui, circa l’integrazione dei bambini con questo tipo di handicap?

Dalla lettura di questo libro si potranno trarre diversi vantaggi: una conoscenza semplice ma essenziale dei diversi handicap, delle loro possibili origini e della loro evoluzione, ma soprattutto si dovrà riflettere sull’invito pressante al rispetto della personalità del ragazzo, sulla raccomandazione a non separare mai gli handicap fisici dal processo mentale e dalla integrazione spirituale del bambino. Solo così, infatti, sostiene l’autore, impareremo a considerare certi handicap dello sviluppo infantile «… come delle esagerazioni di ciò che si ritiene normale variazione delle caratteristiche umane. Solo così potremo trovare anche in noi le stesse fragilità e gli stessi problemi del bambino handicappato, solo così sapremo amarlo non in senso emozionale, o sentimentale, ma il nostro voler bene diventerà tramite con il quale porgere aiuto …»

di Tea Mazzarotto
(Insegnante di sostegno nella scuola media)

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.12, 1985

Editoriale

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Il bambino difficile ultima modifica: 1985-12-24T13:20:03+00:00 da Redazione

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