Lo sguardo di un bianco che squadra un negro… Lo sguardo di uno alto su di un nano, di un adulto su un bambino, o di un bambino su un adulto… Lo sguardo del padre sul figlio, del figlio sul padre… Lo sguardo d’un superiore sul dipendente, dell’operaio sul principale…
Lo sguardo di un giovane su un vecchio, di un vecchio su un giovane… Lo sguardo di un uomo su una donna e viceversa…
Tutti questi sguardi di che cosa sono carichi?
Riescono a essere il riflesso dello sguardo di Dio che contempla nell’altro il proprio viso?

Chi viene ignorato

Veronica e Umberto hanno tre bambini, uno dei quali profondamente handicappato. Tutti partecipano a una festa in famiglia: i cugini vicini e lontani sono molti. La nonna si dà da fare a presentare educatamente sua nuora, Veronica, a quelli che lei non conosce. Dice «Ecco, questa è Veronica, che ha due bambini deliziosi». Veronica precisa seccamente: «No, ho tre figli di cui uno gravemente handicappato». Il bambino era stato cancellato inconsciamente dalla memoria della suocera. Veronica se ne va immediatamente a casa. Sua suocera non sa come rimettere a posto le cose. Ci vorranno dei mesi per chiudere questa ferita.
di J.F.

Voi che avreste fatto?

Bernardo ha quattro anni. È cieco ed è ferito nell’intelligenza. Il suo comportamento è strano: gesti stereotipati, crisi improvvise. La mamma cerca di fargli fare la vita degli altri bambini. Il mercoledì pomeriggio, prende l’autobus con lui e Stefania, la sorella più grande, che ha sette anni, per andare ai giardini pubblici. Sull’autobus una signora guarda Bernardo con insistenza e poi con riprovazione. La mamma sopporta in silenzio. Ma Stefania non riesce a trattenersi. Insulta brutalmente la signora chiedendole di non guardare più in quel modo il suo fratellino. I viaggiatori si fanno sentire. La mamma si affretta a scendere con i bambini alla fermata successiva. Avrebbe dovuto rimproverare in pubblico la piccola Stefania?
di J.F.

Sguardi cupi tristi freddi …

Pur studiando a Parigi da quattro anni, rimane una cosa alla quale non riesco ad abituarmi: gli sguardi cupi, tristi, freddi, preoccupati, indifferenti, di chi incontro in metropolitana.
Eppure l’anno scorso ho capito che bastava poco per far cambiare l’espressione a qualcuno.
In settembre, tornavo a Parigi, su di giri per un pellegrinaggio a Roma. Le grazie dell’Anno Santo mi avevano entusiasmata e volevo realizzare le parole dell’ultimo canto intonato a San Giovanni in Laterano: «Andate a portare al mondo la buona novella e siate miei testimoni su tutta la terra». Credo che quest’alone mi brillasse intorno perché molto presto mi sono accorta che gli sguardi si schiarivano, i visi si distendevano, si illuminavano talvolta di un sorriso. Per riuscire così a comunicare la gioia e la fiducia che avevo nel cuore, malgrado le preoccupazioni, la fatica, l’irritazione di ogni giorno, non avevo altre ricette che cantare fra me e me un canto di lode o di richiesta di grazia.

Basta poco per far cambiare l’espressione a qualcuno. Posso citare un caso preciso in cui ho misurato il peso di uno sguardo. Da più di due anni, ogni domenica sera, rientrando in città, incontro la stessa persona alla stazione della metropolitana. È una ragazza che zoppica vistosamente perché ha una gamba più corta dell’altra.
Prima del pellegrinaggio evitavo accuratamente di voltarmi verso di lei per paura che prendesse per pietà o curiosità lo sguardo di comprensione che volevo offrirle. Fissavo quindi la punta delle scarpe. E lei, radendo il muro, si sedeva velocemente, facendo finta di leggere un libro. Quando la metropolitana arrivava, salivamo continuando poi questa scenetta.
Tornando da Roma, ho osato guardarla in faccia per la prima volta.
Speravo che leggesse nei miei occhi quello che tutti gli altri sembravano trovarci. Quella sera non aprì il libro. Da allora, raggiunge il marciapiede e quando i nostri sguardi si incontrano, ci sorridiamo, così, semplicemente.
di Anne-France M.

Primo sorriso

Sofia, una bambina Down di sei anni, ha ricevuto poco amore. I genitori non hanno potuto sopportare lo choc della sua nascita. Dopo aver divorziato, l’hanno abbandonata in un istituto specializzato. Fortunatamente uno zio e una zia accettano di farla uscire e la prendono con loro alcune settimane per le vacanze, facendole sentire per un po’ il calore della vita familiare.
E lì che, proprio alcuni giorni fa, alcuni amici l’hanno incontrata. Lei stava giocando nel piazzale che si trova davanti a casa. Le hanno sorriso arrivando; e finché sono restati in quella casa, lei non ha smesso di venire a vederli, per portare loro un suo giocattolo, un fiore… in una parola, per chiedere loro un altro sorriso.
Siccome gli ospiti si stupivano della sua socievolezza, la zia ha risposto loro: «È strano, di solito non è così… Si avvicina raramente a quelli che non conosce. Al contrario, è timida ma penso che il vostro sorriso, arrivando, sia stato sufficiente a renderla così!»
di P. e S.

Sanno subito se li amiamo

La prima volta che, in vista della sua adozione, l’abbiamo fatto uscire dall’istituto, Emanuele praticamente non parlava.
A sei anni, il suo vocabolario si limitava a qualche suono di imitazione. Per comunicare non poteva che servirsi dello sguardo.
Fissava i suoi occhioni nei nostri con una richiesta, una profonda ricerca d’affetto: «Davvero, vuoi sul serio interessarti di me? Davvero mi vuoi bene?». Per poco che percepisse un sì nella risposta, scoppiava in una grande risata, e si precipitava verso di noi per condividere baci e coccole! Alcuni giorni dopo, facevo compere con lui nella cittadina vicina a casa nostra e incontrai una dopo l’altra due vecchie amiche che non sapevano ancora del nostro progetto di adottare Emanuele. La prima si china immediatamente su di lui e risponde subito all’eterna richiesta d’affetto: di nuovo risate e baci. Lascio la mia amica, contenta di averla trovata pienamente favorevole al nostro progetto. Emanuele è felice anche lui di aver incontrato un adulto che lo prende in considerazione e che gli vuol bene.
«Davvero vuoi interessarti di me? Davvero mi vuoi bene?»
Due minuti più tardi, mi imbatto nell’altra amica. Questa si limita a squadrare Emanuele poi si rivolge a me chiedendomi: «Dove diavolo hai trovato quella cosa lì?»
Forse rendendosi conto di quanto aveva detto, si china su Emanuele… Ma è troppo tardi.
Emanuele è chiuso come un’ostrica: stretto a me, allontana il viso da quella persona nel cui sguardo non era riuscito a scorgere amore. Quante volte ci siamo scontrati con questo mistero dello sguardo. I bambini handicappati, anche se così poveri, sanno immediatamente se li amiamo. Fin dal primo momento dovremmo saper dire loro: «Sì, ti voglio bene, voglio bene a te che Dio ama ancor di più!»

Esitano poi…

Joelle fa spesso il tragitto da casa al centro. La mamma l’accompagna in treno. È molto calma, e si legge sul suo viso che è trisomica. L’altro giorno, tutti i viaggiatori hanno abbandonato uno ad uno lo scompartimento, in maniera più o meno disinvolta o più o meno impacciata. Alla stazione successiva compaiono due giovani: vedendo Joelle, arretrano, esitano. Poi si decidono ad entrare. Si sistemano. Sorridono a Joelle che risponde loro. Non sanno di aver risparmiato alla mamma di Joelle una notte insonne di lacrime.

di J.F.

Il peso degli sguardi

È bella, sorridente, dinamica, ma è nana. Una luce interiore le illumina il viso. Fa parte di quei messaggeri le cui labbra sono state toccate dal carbone di Isaia e che da tanto tempo hanno detto:
«Eccomi, Signore, mandami dove Tu vuoi». Ma le persone alle quali arriva il suo messaggio lo ricevono attraverso questo corpo difforme, che essi devono prima di tutto accettare. Lei lo sa. Misura in momenti interminabili quegli istanti di esitazione. «Aspetto, dice, di essere accettata. Solamente dopo oso essere me stessa». E c’è in quel «dopo» il peso terribile degli sguardi.

Questa arma che ci portiamo addosso

Frequento l’ospedale tutti i giorni: qui ho potuto spesso vedere gli effetti che uno sguardo può provocare, soprattutto su persone particolarmente ferite, come appunto i malati.
Ho visto persone cadere in profonde crisi depressive per avere interpretato come inesorabile verdetto lo sguardo che qualcuno, specie se in camice bianco, gli aveva inconsapevolmente gettato addosso. Un attimo e si comunicano i propri sentimenti, ingigantiti poi da chi è in una situazione di insicurezza e di paura. Rendendomi conto di questo incontrollabile mezzo di comunicazione, ho sperimentato più volte cosa vuol dire «non sapere dove volger lo sguardo», temere per questa arma pericolosa che ci portiamo addosso. C’è voluto che fossi malata anch’io per capire molte cose: alcune volte credevo di essere in fin di vita per lo sguardo esageratamente grave di qualcuno, altre volte credevo che sarei morta per mancanza di cure, per lo sguardo troppo superficiale e disinteressato di qualcun altro. Raramente sentivo di essere capita: gli altri vedevano in me la malattia, l’organo malato, e mi trovavo improvvisamente trasformata in un insieme di parti anatomiche. Ed io che sentivo di essere una «persona»!
Spesso lo sguardo ha questo dannato potere di selezionare, tra le tante cose di cui è fatta una persona, una cosa sola, sacrificando quindi il «tutto» per la «parte». Questo spezzettamento incrina ancor di più l’umore già fragile del malato, di chi si sente diverso.
La prima cosa che coglie lo sguardo sono infatti le «differenze». Dall’esterno si posa incautamente su quegli aspetti che mi distinguono da te, sottolinea le tue diversità, quindi è uno sguardo che categorizza, che allontana: sono sano, il mio sguardo indaga sulla tua malattia; sono allegro, il mio sguardo si impunta sulla tua tristezza; prende le distanze. Gli effetti che uno sguardo può provocare, soprattutto su persone ferite…

È così anche nei confronti di quelle persone che portano su di sé evidenti i segni delle ferite della propria mente o del proprio corpo, come alcuni dei miei amici o persone che si incontrano per strada. Mille difficoltà ad andare oltre, a non fermarsi alle differenze! E nella migliore delle ipotesi lo sguardo è di impaccio e di imbarazzo.
Piccoli passi di progresso su questa strada me li hanno insegnati proprio i miei amici catalogati come «diversi» da noi. Ho conosciuto l’abbondanza dei loro doni, mi hanno dimostrato che non ci sono solo le «differenze» in loro; bisogna essere attenti, delicati e si scopre molto di più, magari differenze che questa volta ci vedono perdenti nel confronto: è successo che il loro sguardo ha tirato fuori le mie povere «differenze», le mie paure e le mie bugie. Tutte tirate fuori da uno sguardo di Carla che mi dice: «Non sei contenta, tu!» o dagli occhi di Elena che sembrano dirmi: «Non sai capirmi!». Mi hanno insegnato che c’è uno sguardo «dall’interno», che non prende le distanze, non separa, non distingue me da te. Uno sguardo che invece costruisce un ponte, una vera comunicazione tra me e te, al di là delle «differenze».
Così ogni mattina in ospedale, durante la visita «ufficiale» : io non ho ancora diritto di parola e i pazienti lo sanno, ma lo stesso, mentre ascoltano i discorsi ufficiali, quelli che spesso li spezzettano in tanti organi e li limitano alla loro malattia, mi guardano e io so che in silenzio posso allentare le tensioni inutili, posso mettere un pizzico di fiducia, posso chiarire delle incomprensioni, posso dire: «Io so che al di là della tua malattia c’è tutto il tuo mistero».
di Anna Cece

Esperienze tratte da Ombres et Lumière, n. 96

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.12, 1985

Editoriale

Natale a Lubiana di Mariangela Bertolini

Dossier: Lo sguardo, un messaggio

«Bocca ride, occhi non buoni» di M.H. Mathieu
Il peso degli sguardi
- Chi viene ignorato
- Voi che avreste fatto?
- Sguardi cupi, tristi, freddi
- Primo sorriso
- Sanno subito se li amiamo
- Esitano e poi...
- Il peso degli sguardi
- Questa arma che ci portiamo addosso

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Rubriche

Dialogo aperto n. 12
Vita di Fede e Luce n. 12

Libri

Incontro Gesù di Jean Vanier
112 suggerimenti per un corretto rapporto con gli handicappati

Il peso degli sguardi ultima modifica: 1985-12-26T11:57:37+00:00 da Redazione

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