Sopravvivere alla morte di una persona cara è uno degli eventi più terribili che si possa affrontare. Quando si tratta di un figlio, il dolore, l’annichilimento e la percezione di fallimento sono soverchianti e incontenibili.

Sopravvissuti. Così vengono definiti i genitori, i figli, i fratelli, le sorelle, i partner di coloro che hanno deciso di porre fine alla propria esistenza in modo traumatico e violento: improvvisamente catapultati in una realtà inimmaginabile, non riescono neppure a mettere a fuoco come superare la giornata, stare in piedi, mangiare, parlare, sopravvivere appunto, dopo quanto accaduto.

Psychache è invece la parola che esprime il dolore estremo e intollerabile dal quale il suicida scappa. Sì, perché togliersi la vita non vuol dire cercare la morte, ma paradossalmente tutelare la vita ponendo fine a una sofferenza che non si riesce più a sopportare. Ma cosa avviene a chi rimane? Che ne è di quei genitori, figli, fratelli, sorelle, mogli e mariti che sono stati tagliati fuori dal proprio caro dalla scelta più estrema? Ai genitori è stata negata dal figlio la possibilità di fornire un aiuto, espropriandoli drammaticamente e per sempre dal loro ruolo. In balia di emozioni molteplici e contrapposte che non danno tregua, spesso pensano di seguire il proprio figlio per porre fine a un’esistenza di cui non vedono più lo scopo. Chi sopravvive si sente spaesato, confuso, come in un sogno: la consapevolezza di quanto accaduto arriva solo poco alla volta.

La paura è estrema e paralizzante: «Come andrò avanti? Come sosterrò lo sguardo dei curiosi? Accadrà di nuovo a me, agli altri figli, a chi mi è caro?». La colpa attanaglia come una morsa: «Se soffriva è colpa mia, se solo avessi detto o avessi fatto, se non mi fossi comportato con lui/lei in quel modo non sarebbe accaduto». La vergogna poi pervade tutto con una profondissima percezione di indegnità e di impossibilità a far ancora parte del consesso umano. Come se tutti potessero vedere l’orrore di cui ci si sente responsabili. E la rabbia – nascosta, soffocata, negata – a cui non si ritiene di aver diritto, rivolta proprio a quel caro che, suicidandosi, ha cambiato il destino di tutti, mandando all’aria qualsiasi progetto futuro. Talvolta, ritenendola inopportuna e sconveniente, viene occultata, interrompendo così un autentico dialogo interiore con chi si è tolto la vita.

Cosa dire agli altri, cosa raccontare di quanto accaduto? Spesso questi eventi diventano segreti, verità da celare, a volte anche a sé stessi («Mio figlio ha perso l’equilibrio ed è caduto»). Come e cosa dire ai figli, fratelli, nipoti, bambini? A volte si dicono bugie sperando che il differire ammortizzi l’impatto. Ma la verità passa attraverso sguardi, parole, comportamenti; oppure arriva distorta e fuori controllo da altri, complicando l’elaborazione di un lutto già tanto traumatico. I segreti lavorano nell’ombra vincolando tutti a un patto, quello del silenzio, che rende distanti e sofferenti, chiusi, ciascuno, nel proprio dolore.

La convinzione pervasiva che frequentemente accompagna i sopravvissuti è che non potranno più vivere pienamente e mai più sperimentare emozioni come gioia o felicità, convinti di non meritare più nulla: se il mio caro è morto, in questo modo, quasi una pubblica accusa nei miei confronti, non posso che morire con lui. Anche chi osserva si aspetta dai sopravvissuti che soffrano ora e per sempre. Grava su di essi lo stigma del giudizio, pesante fardello che li vede colpevoli senza possibilità di appello, ulteriore peso emotivo e psicologico: «Sicuramente hai sbagliato, qualcosa nella tua famiglia è andato storto». È necessario farsi piccoli, invisibili, tristi e ritirati, come si conviene debba avvenire a chi si è macchiato di una simile colpa. È un grande ostacolo alla ripresa di una nuova normalità, poiché lo stesso distrarsi per poco dall’oppressione del ricordo può sollecitare potenti vissuti di colpa. Si verifica inoltre, frequentemente, la tendenza a ricercare un colpevole esterno, insopprimibile bisogno di trovare una risposta al «perché lo ha fatto?». La sua individuazione sembra poter lenire in qualche modo la sofferenza ma può divenire un’attività totalizzante e alienante («È stata colpa del suo capo al lavoro, dell’insegnante che ha detto questo o quello, dei compagni di scuola che lo hanno bullizzato»). Considerare questi fatti come le cause esclusive allontana dalla comprensione e ostacola l’elaborazione del lutto. Le possibili ragioni, purtroppo, sono spesso molto remote e complesse.

È fondamentale che genitori e familiari sopravvissuti al suicidio vengano aiutati nell’elaborazione del lutto con competenza e delicatezza, affinché l’evento drammatico che li ha colpiti non rappresenti l’ultima parola sulla loro vita. È necessario che abbiano sostegno e conforto dalle persone vicine, per aiutarli ad andare avanti nei primi tempi e gestire la quotidianità che rappresenta, talvolta, un ostacolo insormontabile. È importante che i sopravvissuti vengano sostenuti nel riconoscere, legittimare ed esprimere le loro emozioni, compresa la rabbia, nei confronti del familiare scomparso, anche in condivisione con altri (come avviene presso la comunità di Romena nel gruppo Nain sotto la guida di don Luigi Verdi).

Una vita piena e felice è realizzabile ancora ma richiede di decidere di vivere nonostante un dolore che può e deve diventare tollerabile.

Chiara Gatti è psicoterapeuta, esperta in EMDR (emdr.it)

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 158, 2021

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Riannodare il filo ultima modifica: 2022-08-08T09:02:01+00:00 da Chiara Gatti

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