«Belvanie una volta mi ha detto: “Se non puoi amarmi tu, non potrà farlo nessun altro”. Fu una doccia fredda: significava che quelle che mi sembravano piccole cose insignificanti rappresentavano tutto per lei. Il percorso scolastico, l’alfabetizzazione di base passavano in secondo piano. Una ragazza di 19 anni con una disabilità cognitiva importante, mi faceva capire che aveva sofferto qualcosa che non ci è concesso sapere, che si spogliava di ogni muro protettivo e che c’era bisogno di qualcosa in più».

È Emanuela Posa, 26 anni, a farci conoscere Belvanie e, con lei, la Repubblica Democratica del Congo (Rdc), «ancora sofferente per la terribile guerra civile finita vent’anni fa». Grande più di mezza Europa, ricca di materie prime, e con una foresta equatoriale che è la seconda al mondo per estensione, la Rdc ha «un pil da ultimo posto al mondo ed è 175° secondo l’indice di sviluppo umano che incrocia dati relativi a speranza di vita, pil pro-capite e alfabetizzazione». Emanuela è cresciuta a Villa d’Adda nella provincia bergamasca, con quattro fratelli di cui l’ultimo, Andrea, adottato da una casa famiglia che accoglie bambini con gravissime disabilità. Finita la scuola («un calvario»), ha lavorato per 4 anni in un negozio per animali, ma «non ce la facevo… dovevo stare fuori, all’aria aperta». Oggi Emanuela cammina in media 10-15 chilometri al giorno, ed è felice.

Come sei arrivata a Kinshasa?
Ho fatto la mia prima esperienza di volontariato internazionale in Zambia nel 2016. Un mese e mezzo con un progetto della Caritas di Milano. Tornata, ho capito che volevo continuare ma il tempo passava ed ero irrequieta. Nel 2018 parlai con alcuni amici di un’associazione di clown di corsia come me, che erano stati nella Rdc: cercavano volontari disposti a fermarsi a lungo. Il giorno dopo ho scritto che volevo partire. Così dopo i colloqui, le valutazioni necessarie e la stesura del progetto, a marzo 2019 sono partita per la pediatria di Kimbondo a Kinshasa, la capitale, dove, insieme alla struttura ospedaliera, sono ospitati 550 bambini orfani. Alla fine dei tre mesi previsti, l’associazione mi chiamò: serviva una persona per coordinare Casa Patrick che ospita un centinaio di bambini e ragazzi con disabilità. In un nano secondo ho accettato. Dopo una pausa in Italia, sono tornata con un contratto di lavoro. Purtroppo, siamo dovuti rientrare prima del previsto per la pandemia. Poi, a marzo 2021, sono tornata con Moninga, un’altra ong, che mi ha proposto di coordinare nuovi progetti per bambini con disabilità.

Chi ha incontrato a Casa Patrik?
Oltre Belvanie, chi mi ha fatto capire che ero nel posto giusto è stata Sahori, una ragazza autistica. Si esprimeva a gesti, i suoni che emetteva a volte erano inquietanti. Si graffiava, era violenta anche con gli altri, per questo veniva lasciata spesso da sola, sporca. Tra schiaffi, strappi di capelli e altro, siamo arrivate a stare insieme. Un giorno mi ha sorpresa cercando di chiamarmi: voleva una banana per merenda, ma poi ha deciso di condividerla con un’altra ragazza del reparto. Avevamo inventato dei segni per comunicare. Il legame è diventato talmente forte che quando sono partita ha iniziato a lasciarsi andare, a rifiutare il cibo: si è ammalata ed è morta. La mia vita è cambiata con la nostra amicizia: le ha dato un senso.

Nella Rdc i bambini con disabilità vivono nascosti e segregati. Quando devono uscire vengono coperti da teli, come dei cadaveri.

Qual è la condizione della persona con disabilità nella Rdc?
La disabilità è un tabù. Si parla di ndoki, termine che evoca gli spiriti maligni che si crede posseggano la persona con disabilità, priva di valore e dignità. Un giorno a settimana andiamo casa per casa a cercare i bambini che vivono nascosti e segregati. Quando devono uscire vengono coperti da teli, come dei cadaveri. I primi approcci con la famiglia sono sempre difficili, piano piano instauriamo un rapporto. Oggi i bambini iscritti a scuola (è il principale dei progetti che coordino) sono passati da 15 a 72! Anche perché la scuola, completamente gratuita, offre un pasto completo grazie alle donazioni private. E speriamo di riuscire a realizzare un’abitazione per circa 15 adulti con disabilità rimasti soli, per un dopo di noi anche a Kinshasa.

Nessuna possibilità, dunque, di cura ed educazione?
La sanità pubblica è solo per i ricchi. L’unica altra scuola speciale di Kinshasa (che ha 50 milioni di abitanti) è privata: costa 10 volte il reddito medio di una famiglia. Di solito quello che i familiari fanno è di rivolgersi, pagandolo tantissimo, allo stregone di turno per cercare di estirpare lo spirito che sta intaccando il bambino; sono pratiche, oltre che inutili, spesso anche molto violente, al termine delle quali c’è l’abbandono. Per questo è importante fare formazione. Da poco abbiamo avviato un centro medico dedicato a diagnosi, cura e riabilitazione della paralisi cerebrale: i primi 12 bambini arrivati rappresentano già un grande passo. Le famiglie finalmente collaborano, fanno comunità tra loro, sembrano aver superato la vergogna.

E le ragazze con disabilità?
Se la disabilità è un tabù, esserlo come donne è una vera condanna. È altissimo il rischio che vadano per strada finendo vittime di violenza, come è successo a Petronelle, 25enne con una disabilità cognitiva, rimasta incinta dopo uno stupro. Quando è arrivato il momento del parto non faceva avvicinare nessuno. La conoscevo da un po’ e alla fine mi ha detto «ho paura». Seguendo le istruzioni a distanza di medico e ostetrica, in dieci minuti mi sono ritrovata una bambina tra le mani! Ora sono la madrina della piccola Lela, che ha 2 anni e sembra non avere alcun problema cognitivo. Cerchiamo di aiutare le ragazze a scoprire altre possibilità, a imparare a sognare, a stupirsi. Per questo tra i progetti c’è quello di una casa di accoglienza per 10 giovani donne recuperate dalla strada.

Emanuela Posa RdC - intervista

In tutto questo che parte ha avuto Dio?
Nel 2018 soffrivo tantissimo, il mio rapporto con Dio si era sgretolato: svanita la prima occasione di partire, non ho messo più piede in chiesa. Vengo da un ambiente scout e da tanto oratorio: ci stavo molto male. Dopo qualche mese nella Rdc, poco prima della veglia di Pasqua, un amico musulmano (che non sapeva nulla di quanto stavo attraversando), mi disse che Gesù era morto per me e che sarebbe stato pronto a prendere anche i miei dolori. Quella sera andai alla veglia e improvvisamente lo svelamento del Crocifisso mi sollevò da tutte le sofferenze, perdonò il mio mancato affidamento. Mi sono sentita parte di qualcosa di più grande, anche nel custodire le storie che mi vengono raccontate.

E la parte di tuo fratello Andrea?
La principale: è lui l’apripista. Mi ha fatto sperimentare quanto possa cambiare la vita di qualcuno come lui con i giusti aiuti. Ha cambiato tutto.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 156, 2021

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Poco a sud dell’Equatore ultima modifica: 2022-02-16T14:35:51+00:00 da Cristina Tersigni

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