La gratuità degli esami diagnostici prenatali favorisce ulteriormente la ricerca e l’individuazione precoce delle anomalie genetiche, di cui la più nota è la sindrome di Down. Consequenziale è il ricorso all’aborto, diffusissimo nei Paesi del nord Europa, in alcuni dei quali le persone con sindrome di Down sono quasi sparite. Anche in alcune zone dell’Italia settentrionale sono alte in questi casi le percentuali di aborti. Non si può più nascondere la deriva eugenetica, promossa da leggi che creano mentalità e condizionano le scelte; e pure dalle sempre più sofisticate tecniche di indagine, con recente riferimento al cosiddetto Nipt (Non Invasive Prenatal Testing), definito un test di screening innovativo e non invasivo.

«Accade non poche volte – scriveva Giovanni Paolo II nella Evangelium vitae (1995) – che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l’aborto selettivo, per impedire la nascita dei bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è (…) quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di “normalità” e di benessere fisico». E nella Evangelii gaudium (2013) Papa Francesco ci ricorda che «la difesa della vita nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualsiasi situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in se stesso e mai un mezzo».

Qualcuno potrebbe sostenere che il diritto alla vita con connessa qualità della vita delle persone con sindrome di Down è garantito dalle potenzialità cognitive, affettive, relazionali, comunicative, sociali, operative, ludico-sportive che troviamo in tanti di loro. E nei mass media capita che persone con sindrome di Down vengano messe in primo piano per il loro proficuo saper fare, per la tendenza alla partecipazione sociale, per la simpatia che manifestano nelle relazioni affettive. Ma se non sapessero fare?

Ognuno è unico e irripetibile, la diversità degli umani è un valore, il concetto di normalità è ambiguo. Ci sono anche persone con la sindrome di Down con importanti problemi cognitivi, con difficoltà relazionali e comportamentali che ne condizionano la vita personale e comunitaria, rendendo necessario un accompagnamento perenne. Nel dubbio, a causa delle difficoltà che si presume potranno incontrare nella vita e del carico notevole di impegno per coloro che dovranno prendersene cura, molti pensano che sia meglio abortirli. Eppure non sono meno umani e meno meritevoli di stare al mondo di altri.

Sono lo sguardo pedagogico e l’accompagnamento educativo a permettere di andare oltre il pericolo dell’aborto. Lo sguardo pedagogico permette di riconoscere l’originalità di ognuno, unico e irripetibile, con la sua personalità, il suo modo originale e dinamico di essere, di esprimersi, di operare, di relazionarsi, di comunicare, di amare; e quindi permette di promuovere, valorizzare, personalizzare in qualsiasi condizione ed età della vita. Nessuno escluso. Dallo sguardo pedagogico deriva l’accompagnamento educativo che dà la possibilità di garantire concretamente il progetto di vita, la quotidiana promozione integrale della persona, una dipendenza buona e un’esistenza bella con orizzonti di senso, grazie alla comunità accogliente che si adatta dinamicamente alla persona, dando possibilità e garantendo libertà. Questa è la vera inclusione.

D’altra parte non aiutano a perseguirla servizi alla persona con disabilità intellettiva che – invece di essere comunità educative in stile familiare, aperte e gioiose – sono ridotti all’assistenziale e al sanitario. E il periodo del coronavirus ha ancor più evidenziato una neo-istituzionalizzazione di residenze per persone con disabilità intellettiva, chiuse dentro da più di un anno, con un preoccupante isolamento sociale, con tolti (o ridotti a protocolli rigidi e dozzinali) i rapporti con i familiari.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 154, 2021

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