Disegno di Giulia Scimè, Vd, Scuola elementare Pistelli, Roma

 

Quell’anno avrei avuto un triennio nuovo, una classe piccola, soltanto 20 alunni perché c’era una ragazza con disabilità. Disabile come? Avevo chiesto alla preside del liceo linguistico di Roma dove insegnavo. Era il 2007.

«Personalità disarmonica c’è scritto sulla scheda. Una ragazza difficile, con tratti istrionici, a tratti aggressiva, urla… Ha il sostegno per 8 ore».

«Che vuol dire “personalità disarmonica”? Il mondo è pieno, e questa scuola pure, di personalità “disarmoniche”, non trova?».

«Professoressa, che dirle? Di Francesca posso assicurarle che è intelligente, è stata sempre promossa, ha difficoltà a relazionarsi con i compagni, a volte esce dall’aula e non è facile rintracciarla perché questo è un edificio antico, in genere se ne va nel piano interrato e i bidelli la trovano dopo un po’ nella stanza deposito delle carte geografiche, o negli stanzini delle scope… Abbiamo avuto cura di eliminare oggetti pericolosi, teniamo chiuso il laboratorio di chimica. Ma Francesca non è pericolosa né per sé né per gli altri… So che è testarda, a volte si rifiuta di seguire le lezioni, ha violente antipatie o simpatie per i diversi insegnanti. Ha questi momenti di stranezza in cui scappa dall’aula, a volte urla o si mette a cantare».

«Vedremo – risposi – intanto mi informo meglio».

Consultai i membri del GLH, presi un appuntamento col medico della ASL cui era affidata la sedicenne, parlai con l’insegnante di sostegno che l’aveva seguita nel biennio. Volli incontrare i genitori.

Nessuno di questi colloqui mi aiutò a capire in cosa consisteva la concreta disabilità psichica di Francesca. E, di conseguenza, a predisporre un piano pedagogico. Per i genitori «aveva un brutto carattere», per l’insegnante di sostegno era «una matta», per il medico – tra mille giri di parole – «una personalità disarmonica».

Il primo giorno appena entrata in classe mi presentai, «Sarò la vostra insegnante di Italiano e Storia, ora voglio imparare i vostri nomi» e per un’ora facemmo conoscenza, parlammo dei programmi di studio. Francesca era seduta da sola al primo banco. Era una ragazzona alta, ben piazzata, con tanti capelli ramati e mi fissava con attenzione, doveva decidere se le piacevo. Mi chiese se ero sposata, se avevo figli. Capii che avevo superato il suo esame perché mi regalò un sorriso splendido. Partì così un viaggio durato tre anni e continuato anche in seguito.

Mi riusciva di calmarla anche accostandomi al suo banco. Lei sorrideva e quel contatto fisico la placava.

Col tempo imparai a destreggiarmi con le “stranezze” di Francesca. Da un lato cercavo lumi sulla sua patologia, dall’altro non volevo medicalizzare il rapporto. Feci appello a tutto quel che avevo assorbito in formazione didattica (Ateneo Salesiano e vari corsi sulle disabilità psichiche al Policlinico Gemelli), feci appello alla mia passione per quelle discipline che insegnavo, in una parola raccolsi la sfida. Anche nelle incongruità gli interventi di Francesca, le sue osservazioni avevano un senso che cercavo di afferrare. Più che capire volevo e dovevo “sentire”.

Invece di portarla a me cercavo di entrare nel suo percorso mentale. Era molto brava a disegnare, aveva una cultura musicale e artistica notevole, parlava correttamente due lingue straniere. Erano punti di forza su cui ho fatto leva.

Momenti difficili ce ne sono stati. Dovevo gestire altri 19 allievi, non potevo concedere troppo ai suoi furori. Se scaraventava in aria un banco interrompendo la lezione perché pretendeva attenzione immediata e totale per sé, di volta in volta decidevo – su due piedi – se ignorarla e farla urlare fino a che diventava rauca, se interrompere quel che stavo dicendo e farla “entrare” nella spiegazione con una domanda, una parola “giusta”, un tema di quel sonetto, un episodio storico della rivoluzione americana…

Mi riusciva di calmarla anche accostandomi al suo banco. Lei iniziava a toccare una sciarpa, un foulard, una collana che indossavo, io continuavo la lezione, lei sorrideva e quel contatto fisico la placava.

Parlava da sola davanti al vetro delle finestre. Non le ho mai chiesto a chi dicesse cosa.

Intuiva al volo la bellezza di un verso di Tasso ed era capace di collegarlo a un altro madrigale. Più che il Rinascimento amò il Barocco (forse le era più congeniale) e in particolare i sonetti di Ciro da Pers. Di Leopardi preferiva le Operette Morali alle liriche e una volta al posto del tema che avevo assegnato sul Dialogo della Natura e un islandese fece un disegno. Una donna enorme, alla Botero, con una massa di capelli ricci che la coprivano fino a terra e un omino piccolo in un angolo del poster. Piccolo e in ginocchio, vinto, spaventato, inerme. Classificai quel lavoro. Non era una trattazione verbale ma le disposizioni di legge parlano di «elaborati scritti in classe».

Era un elaborato scritto ed era stato svolto in classe.

Abbiamo attraversato così un triennio, fino all’esame di maturità. Fece con me il suo primo viaggio di istruzione, prima di allora nessuno aveva voluto responsabilità. Andammo a Praga e accettai, forse incoscientemente, di essere sua accompagnatrice personale. Fu una esperienza durissima già sull’aereo e poi in giro per la città. Dovemmo qualche volta prendere un taxi di corsa e tornare in hotel per dar modo alle crisi di sedarsi. Ma ce l’abbiamo fatta.

Francesca si è laureata alla Lumsa, continua a essere trattata con farmaci antispicotici, grazie al cielo ha una famiglia economicamente solida. Ora è una giovane donna sempre difficile. Ma va avanti… giorno per giorno. Cosa sarà di lei? Chi può dirlo? Comunque un pezzo di strada l’abbiamo fatto.

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Io e Francesca ultima modifica: 2020-11-11T08:38:59+00:00 da Giulia Alberico

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