«Mi piace stare insieme!».

«È bello, mi piace!».

«Quando noi insieme?».

«Quando… chiesa?».

«Domenica 8, sì, tu telefoni mamma e dici io devo venire».

Ci sono appuntamenti di lavoro, di affari, di incontri… che spesso scordiamo. Per loro gli appuntamenti sono rari e forse per questo si fissano nel loro cuore in modo sconcertante: loro, che sembrano non avere memoria per le nozioni di studio, non dimenticano mai le date di un incontro, di una partenza, di una festa. Ad alcuni, mi dicono certe mamme, è bene non dirle nemmeno, tanto si agitano perché quel giorno famoso non arriva mai.

Incontrarsi con gli amici e i genitori equivale sempre a una festa, purché i protagonisti siano loro, i genitori, tutti insomma. Interessano poco, invece, le feste con lo spettacolo fatto da «esterni». Lo stare insieme e partecipare ad attività, a giochi, a un mimo, al teatro, alla danza, è per i nostri amici un bisogno oserei dire vitale: traspare naturalmente dai loro volti una gioia che si comunica a chi li circonda, creando un’atmosfera piacevole, gradita anche e soprattutto a chi capita lì per la prima volta.

Per non parlare delle lacrime che affiorano, che in alcuni diventano veri singhiozzi o manifestazioni di ribellione, al momento di chiudere, di lasciare il campo, la festa.

«Cos’hai? Perché tu triste?»

È vero di ogni uomo, mi direte, questo desiderio di allegria e di spensieratezza; ma c’è in loro, non so se per natura o per il troppo tempo che passano da soli senza saper cosa fare, una voglia di «festa» che mi ha sempre impressionato.

Penso a Giorgio, un ragazzone già adulto, che alla messa delle 12 in parrocchia, non riesce a star quieto e continua a chiedere: «Quando la pace?» ; per lui quello è il momento culminante della sua gioia a messa, perché può scorrazzare e andare a dare la mano a quanti più può. O penso ad Alberto, che con voce triste e lamentosa mi chiede: «Quando si canta?».

E ancora a Giorgio che non sopporta la fissità di comportamenti seri di noi che seguiamo la messa in silenzio e che invita con le sue lunghe braccia le persone ad andare a ricevere il Signore: «Venite! Venite!».

Sono incapaci di sopportare la tristezza dei volti, la noia, i visi tirati, le inevitabili discussioni, i rimproveri, le voci alterate… Subito, in occasioni del genere, si abbattono, diventano tristi, lanciano occhiate di aiuto, si danno da fare, a modo loro, perché ritorni il sorriso su tutti.

Se uno è serio, preoccupato e nessuno se ne accorge, si fanno vicini, chiedono: «Cos’hai? Perché tu triste?».

E fanno centro, il più delle volte. Parlano, sanno parlare direttamente al cuore, senza preamboli.

Ricordo Carla, in pizzeria; festeggiavamo il suo onomastico. Si è alzata e, a passi silenziosi, si è diretta ad un tavolo dove un signore mangiava da solo. Solo lei si era accorta di lui e aveva capito che bisognava invitarlo al tavolo con noi. E il signore è venuto e ha offerto da bere a tutti, perché sconcertato da tale accoglienza.

E come si accorgono se qualcosa non è stata preparata bene! Se gli amici sono un po’ indolenti, se la sala è troppo rumorosa, se i genitori chiacchierano tra loro di cose pesanti, invece di partecipare!

E come sono fieri di poter suonare un triangolo, un tamburello, di entrare in scena anche solo come comparse; di vedere il proprio papà o la propria mamma, rappresentare un personaggio importante o far ridere il pubblico o vederli premiati come «primi ballerini della serata»!

Tralascio, perché fin troppo noti, i baci, gli abbracci, gli applausi che offrono e ricevono con tale veemenza e trasporto da rendere necessari interventi d’autorità. Mi fermo invece a ricordare il desiderio che manifesta or quello or quella, di parlare alla cerchia di amici, nel silenzio totale: poche parole, a volti suoni e balbettii quasi impercettibili, ai quali fa seguito un applauso che li gratifica nel profondo: «Ho potuto dire la mia, una volta tanto!» sembrano dire andandosi a sedere.

Piccole cose, piccoli fatti, piccole attenzioni; ma come far sì che i nostri incontri si rinnovino, siano sempre più pieni di idee e di creatività, di equilibrio e di «disciplina», perché lo «stare insieme» sia veramente una festa, un «luogo per riprendere fiato», un momento terapeutico nel senso più profondo del termine?

Questo numero è una risposta: ci auguriamo possa essere di aiuto e di incoraggiamento perché sempre di più e sempre meglio si faccia posto e si eserciti fra noi il «diritto alla festa».

Mariangela Bertolini, 1988

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.22, 1988

Sommario

Editoriale

Diritto alla festa di Mariangela Bertolini

Articoli

In cerchio di Nicole Schulthes
Fare teatro di Maria Teresa Mazzarotto
La danzaterapia di Maria Fux di Sergio Sciascia
Come fare una festa di Mario Collino
Un pomeriggio chiamato laboratorio di Francesca Polcaro
A scuola di ricamo per imparare divertendoci di Lia Antonioli

Rubriche

Dialogo Aperto n.22

Libri

Libri per lavoretti manuali
Libri per giocare
Madre e handicap di G. Ponzio
Non ha più sedici anni di N. Schulthes
Barriere di carta di M. T. Mazzarotto

Diritto alla festa ultima modifica: 1988-06-30T13:20:22+00:00 da Mariangela Bertolini

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