«Tutti si sono allontanati!» «Siamo rimasti soli, … perfino i parenti non li vediamo quasi mai!». Quante volte sentiamo dire queste frasi dai genitori di un figlio con handicap. È vero: la sofferenza ci divide dagli altri, ce ne allontana in modo quasi naturale. Più si è colpiti, più si tende a raggomitolarsi, a stringersi in se stessi, a chiudersi e a chiudere porte e finestre, convinti che la solitudine sia quello che ci vuole per sopportare meglio un peso che schiaccia o che travolge.
Io stessa so, per averlo provato, che parenti, amici, fratelli, sembrano sfuggire via da quel carico di dolore, che si fa ancora più pesante proprio per quell’impressione di solitudine e di abbandono.
Impressione o realtà? Siamo noi che ci allontaniamo o sono loro che si allontanano?
Siamo noi che teniamo lontano il nostro figliolo perché abbiamo paura, perché ci sembra che solo noi possiamo capirlo, perché non vogliamo dar fastidio, perché… perché…
Sono loro che hanno paura, che provano disagio, che non sanno come fare, che… che… E una volta creato questo vuoto, perché prendersela con gli altri?
Non è meglio riconoscere con semplicità e con obiettività che questo vuoto che ci fa così male è conseguenza grave e pesante ma, oserei dire, condizione normale di ogni dolore.
Si è sempre soli quando tocca «accettare» o «accogliere» un male che duramente bussa alla nostra porta. Ma nel caso di un figlio con handicap, non finiamo spesso per allontanare lui dagli altri che vorremmo invece vicini, partecipi, solidali?
Il processo di emarginazione o di socializzazione mi pare cominci proprio dal come i genitori fanno fronte all’avvenimento. E se è normale che all’inizio si rimanga storditi, impietriti e soli, questo va superato con coraggio e determinazione.
Gli altri si faranno avanti solo se noi per primi faremo i passi giusti perché la porta della nostra casa e quella del nostro cuore rimangano aperti. Non è cosa facile, soprattutto all’inizio, ma, come ci dicono gli articoli di questo numero, è altrettanto facile cominciare a schiudere l’uscio per accorgersi che nonni, zii, fratelli, amici sono magari lì che aspettano un nostro segnale per farsi avanti.
Il soffrire da soli non serve a nessuno, è atteggiamento sterile. Il «farsi prossimo», di cui tanto si parla, esige che da ambedue le parti ci sia volontà di comunicare, per portare insieme quello che sembra un peso insopportabile e che può, proprio perché condiviso, trasformarsi per lo meno in peso più leggero.
Non è forse questo l’insegnamento più importante che ogni anno ci ripropone la Luce di Betlemme?
di Mariangela Bertolini, 1986
Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.
Tutti gli articoli di Mariangela
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.16, 1986
Sommario
Editoriale
Prepariamolo a vivere con gli altri di Maria Egg
Tutto quello che ha fatto per noi di Brunella D'Amico
Ora che sono sola… non sono più sola di Luisa Spada
Festa in casa con lui di Rita Ozzimo
Perché ho dato una mano di O.B.
Il convento: una seconda famiglia per Giampiero di Nicole Schulthes
Vederli migliorare di Sergio Sciascia
Rubriche
Dialogo aperto
Vita Fede e Luce
Libri
Quando arrivano i "Fatt’ Curagg" di E. Teresa Biavati
Come i cerchi nell’acqua di Carla Piccoli Dal Maso
Vivere l'ultimo istante di Christiane Jomain