La giuria dell’ottantesima Mostra del Cinema di Venezia ha trovato parecchi temi di urgente attualità nelle opere in concorso da valutare. Poche contestazioni sul Leone d’oro a Povere Creature! Di Yorgos Lanthimos, generalmente apprezzato, mentre qualche malumore in più hanno suscitato le Coppe Volpi agli attori (Cailee Spaeny in Priscilla e Peter Sarsgaard in Memory. La scelta più forte della giuria guidata dal regista Damien Chazelle è l’aver voluto tra i premiati, entrambi i film sul tema delle migrazioni: i due film, proiettati a distanza di un giorno l’uno dall’altro e tematicamente simili, sono apparsi da subito molto diversi.

Zielona Granica - Green Border, di AgnieszkaHolland (2023)

Zielona Granica – Green Border, di Agnieszka Holland (2023)

Un confine mai raccontato: Zielona granica di Holland

Premio speciale della giuria è stato Zielona granica (Green Border) della polacca Agnieszka Holland, una delle opere più potenti e memorabili di Venezia 80. Bielorussia e Polonia: uno dei confini meno raccontati dell’Unione Europea perché il governo polacco ha reso quelle aree “zone speciali” interdette ai civili, alla stampa e alle associazioni umanitarie. Le guardie di confine polacche possono così violare impunemente le leggi internazionali sul diritto d’asilo. Chi scappa da Siria, Afghanistan, o altre parti del mondo, tenta di entrare in Europa passando per la Bielorussia, attratti dal regime di Lukashenko che li può usare come “arma impropria” contro l’UE. Le persone sono trattate come sacchi di patate: i bielorussi li fanno passare in Polonia, i polacchi li prendono e rispediscono in Bielorussia, e così via, anche molte volte; per liberarsene prima, la Polonia impedisce illegalmente a chi è nel suo territorio di chiedere asilo politico. La storia insegna che le peggiori nefandezze vanno fatte in segreto. Finalmente, Holland racconta mostrando gli eventi da più punti di vista: quello dei migranti, dei soldati (e le loro famiglie), degli attivisti che aiutano i migranti. Infine, quello di una psicologa che decide di andare oltre i limiti della legalità per aiutare chi ne ha bisogno, devastata da quanto ha scoperto. Girato in bianco e nero, realistico, non tralascia nulla di ciò che il governo polacco vorrebbe nascondere. Sembra impossibile che dei soldati sollevino da terra una donna incinta e la buttino a forza oltre il filo spinato del confine: questo film mostra l’impossibile, purtroppo anche realtà, sebbene ricostruita. Holland non traccia una linea morale netta tra buoni e cattivi; in ogni popolo, anche nel suo, ci sono entrambi, che magari condividono ambiente sociale e lavoro. Dove sta il torto è evidente e preme l’urgenza della denuncia: il miglior cinema civile possibile che usa il mezzo cinematografico per informare riuscendo anche a emozionare.

Io capitano, il dramma anestetizzato di Garrone

Matteo Garrone, premiato col Leone d’Argento alla miglior regia per Io capitano, ha raccontato un’altra rotta a noi ben più nota: seguiamo il viaggio di due giovani ragazzi senegalesi che sperano di arrivare in Italia per diventare musicisti (uno dei due è interpretato da Seydou Sarr, vincitore del Premio Mastroianni per gli attori emergenti). Sono migranti economici e i loro viaggi non sono meno pericolosi rispetto a quelli delle rotte balcaniche: bisogna affrontare il deserto, le crudeli milizie libiche e le insidie del Mediterraneo. Garrone ha molto a cuore i suoi personaggi e l’emotività degli spettatori; perciò, non mostra nulla di troppo atroce. Rende il viaggio dei suoi eroi una specie di favola molto dolorosa, con alcuni momenti onirici, secondo uno stile iperrealista che scova elementi immaginifici in ogni aspetto della realtà (infatti non c’è uno scarto stilistico netto neppure rispetto a quando ha portato sullo schermo una favola vera e propria come quella di Pinocchio). Tutto il peggio resta rigorosamente fuori campo, come se non fosse necessario mostrarlo forse perché già sappiamo tutto, forse per evitare una sorta di esibizione esplicita del dolore rappresentata da un bianco privilegiato che non lo ha mai sperimentato. Cosa ricorderemo di questo film, se le immagini di cronaca sono più potenti? Se i racconti dei veri sopravvissuti sono più drammatici? È certamente un’opera toccante, intensa, ma anche un po’ anestetizzata. Il dolore è solo sfiorato, così però è più facile dimenticarlo (cosa che difficilmente accadrà col film di Holland): non c’è una vera risposta, ma non si può evitare di domandarsi se questo sia davvero il modo giusto di raccontare le rotte migratorie tra Africa ed Europa.

Due fragilità

Partire o restare: temi che abbiamo trovato in molti film di Venezia 80, anche nelle sezioni collaterali. È il dilemma di Fouad, che vorrebbe tornare in Marocco ma non può perché vive in Italia senza documenti: nel documentario Casablanca di Adriano Valerio (nelle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori) osserviamo il suo stretto rapporto con una donna altrettanto sola e ai margini, Daniela, entrambi di un’umanità rara e generosa. Un rapporto umano difficile da definire che in certi momenti sembra quasi una delicata necessità e talvolta si scontra con le brutture della realtà: il regista ha avuto la pazienza e la fortuna di trovare due persone che non hanno avuto paura di mostrargli per anni le loro fragilità. Una pazienza che Fouad rischia di non avere più perché non vede la madre da dieci anni e non riesce a ottenere un permesso di soggiorno che gli permetta di fare avanti e indietro legalmente, neppure per curare la sua malattia alle articolazioni, non ritenuta dal nostro stato abbastanza grave: non sa se aspettare, se restare con Daniela, se lasciare l’Italia per sempre per rivedere la madre.

Sea Salt (2023)

Sea Salt di Leila Basma (2023)

Dal Libano al Canada

È certamente meno drammatica la situazione dell’adolescente Nayla, personaggio principale di Sea Salt di Leila Basma (in Orizzonti Cortometraggi): il fratello vorrebbe portarla con sé in Canada, lei preferirebbe restare in Libano per studiare a Beirut, forse anche perché sta vivendo il suo primo amore. Eppure, anche in lei, come nei suoi amici, si vede e si ascolta la forte tensione tra il restare in un posto che si ama ma che non offre molte prospettive, e il cercare fortuna altrove: per lei, fortunatamente, è ancora solo un pensiero lontano che accompagna la sua maturazione emotiva in un bel giorno d’estate in riva al mare. Ma Nayla non è che una delle tante persone che prima o poi potrebbero diventare migranti, in modo più o meno lecito, più o meno pericoloso: il suo sguardo che desidera libertà si perde indeciso verso l’orizzonte, ma alla fine è allo sguardo altrui (anche al nostro) che si sottrae, forse inghiottita da quel mare che è diventato ovunque un confine pericoloso da attraversare.

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Partire o restare: la migrazione nei film di Venezia 80 ultima modifica: 2023-09-22T16:52:34+00:00 da Claudio Cinus

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