Quando si parla di disabilità, quasi sempre abbiamo a che fare con film dal registro drammatico molto intenso, di quelli che vogliono scuoterci in profondità o suscitare compassione, con un approccio troppo “adulto” per renderli fruibili ai più piccoli. Per colmare questa mancanza ci viene in soccorso lo studio d’animazione Pixar, che dal 15 settembre porta in sala Alla Ricerca di Dory, seguito del fortunato Alla Ricerca di Nemo.

Entrambi i film hanno a che fare con la disabilità e ne parlano con la giusta ‘lunghezza d’onda’: il primo, uscito ormai 13 anni fa, narrava la storia di Nemo, un piccolo pesciolino con la pinna atrofica che, dopo varie peripezie nelle profondità dell’oceano, imparava ad affrontare le difficoltà convivendo con i suoi limiti fisici; il seguito, come suggerisce il titolo, si concentra invece su Dory, una pesciolina che soffre di mancanza di memoria a breve termine, che decide di partire a cercare i propri genitori, rievocati per puro caso tra le sue memorie dimenticate. Il regista Andrew Stanton ha sviluppato entrambi i film con dinamiche simili, ribadendo la stessa morale prima con una disabilità fisica, poi con una psichica.

Con la metafora del parco oceanografico dove si svolge parte del film, il cui motto è “malattia, riabilitazione, liberazione”, Dory prende consapevolezza della gravità della sua sindrome e dovrà trovare nuove soluzioni per conviverci, accettando la disabilità come parte della propria personalità e non come ostacolo. Una storia piena di ottimismo (il che non guasta mai, in questo frangente) che coniuga la spensieratezza alla riflessione, con una dialettica comprensibile anche dai più piccoli, e proprio per questo forse più peculiare rispetto ad altre storie sull’argomento.

Matteo Cinti, 2016

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.135

Alla Ricerca di Dory – Recensione ultima modifica: 2016-09-16T09:00:14+00:00 da Matteo Cinti

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