«In Canada alla proiezione di un nostro cortometraggio, una ragazza ci disse che si era proprio dimenticata di aver difronte una persona con disabilità… Questo è quello che cerchiamo di ottenere con ogni nostra produzione: raccontare una persona, con tutte le sue difficoltà ma soprattutto quello che vuole, sogna e desidera e che, nel suo profondo, è esattamente uguale a quello che voglio io e che vogliamo tutti, essere riconosciuti. Far sì che lo spettatore senta empatia e un’emozione tale da identificarsi con chi e cosa raccontiamo è dunque la nostra missione».

Missione che Daniele Bonarini, regista quarantaquattrenne e ideatore della prima casa di produzione cinematografica sociale, la Poti Pictures di Arezzo, conduce insieme al gruppo di professionisti e persone con disabilità perché «solo attraverso l’arte, con la sua capacità di suscitare emozioni a prescindere dalle condizioni di chi la fa, si compie una reale inclusione».

Come entra la disabilità nella tua storia?
Da circa 30 anni faccio parte di un’associazione avviata dal Terz’ordine Francescano di Arezzo. Chiamarla volontariato ci va un po’ stretto… siamo amici di persone con disabilità intellettiva che chiamiamo – anche noi – ragazzi… per capirsi più semplicemente. Oltre l’incontro settimanale del sabato pomeriggio, a un certo punto, eravamo a fine anni Settanta, venne l’esigenza di fare una vera vacanza insieme. Si andava con e non per, in una casa sul monte Poti, vicino Arezzo, che affaccia sulla valle Tiberina, terreno di san Francesco per le sue camminate nell’Appennino. In una di quelle occasioni ho anche conosciuto quella che sarebbe diventata mia moglie.

Costi e tempi necessari per un cortometraggio richiedono almeno un anno di preparazione
Anche perché cerchiamo di sviluppare le caratteristiche di ciascuno

Un’esperienza cominciata come un gioco?
Comprai una telecamerina e iniziammo a fare piccoli lavori, per divertimento e senza pretese. Ci mettevamo in gioco per creare parodie dei filmoni hollywoodiani. Nome della produzione: Poti Pictures. Le riprese andavano avanti durante l’anno portando i ragazzi fuori dalle famiglie o dall’istituto. Si passava una domenica insieme e si girava per le case degli altri, nei castelli, coi cavalli. Sono stato sempre molto esigente anche per le sciocchezze! Al Poti successivo proiettavamo il frutto del lavoro di un anno in una restituzione così naturale, onesta e senza fronzoli da poterci ridere sopra insieme, cosa per niente scontata nel nostro mondo dove la persona con disabilità deve essere sempre etichettata come tale. Qui si sentiva parte di qualcosa di importante.

Quindi approfondivi la tua formazione cinematografica, Michele Grazzini quella relativa alla produzione. Ora la Poti Pictures è una casa di produzione cinematografica sociale, seppur piccola…
Una profonda relazione di amicizia: questo è stato l’inizio. L’attività era talmente apprezzata che decidemmo di continuarla cominciando a fare dei corti. I soggetti e le storie venivano, e vengono, cucite addosso agli attori. Impiegavamo tempo e risorse ma le soddisfazioni cominciavano ad arrivare: partecipando inizialmente a eventi come quelli promossi dal Teatro Patologico, o da Capodarco, ci rivolgemmo poi a festival puramente cinematografici, senza etichette. Iscrivendoci senza pretese, a ora, abbiamo ottenuto parecchi riconoscimenti, ultimo la selezione ai Nastri D’argento del 2020 per il corto Uonted!. Siamo andati in Texas, Missouri, Canada… Ci hanno chiamati anche in India, ma mancavano le risorse. Nel 2015 strutturammo l’attività fino a renderla un ramo vero e proprio della cooperativa sociale Il Cenacolo (di tipo B, dicitura che indica l’inserimento lavorativo di persone con disabilità) dove ero impiegato. Ci iscrivemmo al Mibact per accedere ai bandi e abbiamo registrato il marchio all’Euipo di Nizza come prima casa produzione cinematografica sociale al mondo, creando cinque sottoclassi che non esistevano.

Esperienza e forti motivazioni, hanno permesso ulteriori sviluppi…
Volevamo essere valutati seriamente, cinematograficamente. Questo ha significato niente sconti per nessuno: se il sogno di Tiziano Barbini, uno dei nostri attori con disabilità, di andare a Hollywood è pure il mio (e il film che stiamo cercando di realizzare si intitolerà proprio Ollivud), so che per farlo devo strutturare al massimo le potenzialità mie e di coloro che ho intorno, attori, sceneggiatori, troupe, produzione, post-produzione… In una dimensione comunitaria attenta, con l’aiuto della nostra psicologa Sara Borri, abbiamo maturato un metodo studiato e certificato anche dall’Università di Siena. Costi e tempi necessari per un cortometraggio professionale richiedono almeno un anno di preparazione alla Poti Academy, dove cerchiamo di sviluppare le caratteristiche di ciascuno, in un percorso che non vuole essere innanzitutto terapia ma diviene comunque terapeutico: farebbe bene a chiunque e lo portiamo anche nelle scuole. Oltre la cura e la protezione, nel rapporto fraterno che abbiamo possiamo permetterci di non assecondare l’atteggiamento del “sono handicappato” che spesso diviene un alibi e non consente di andare oltre quei freni che chi ha una disabilità spesso utilizza come scudo. Si rende l’attore forte e funzionale (siamo arrivati a fare anche dieci ore di girato in notturna) con il supporto di professionalità adatte a ciascuno, come quella dello psicologo sempre presente sul set.

E ora cosa c’è in gioco?
Paolo Cristini e Tiziano Barbini sono ora attori professionisti dipendenti della cooperativa. Ma dire a ogni persona con disabilità intellettiva che potrà fare l’attore non è realistico né onesto: il sistema cinema che conosciamo lo mangerebbe. Lavorare professionalmente offre una motivazione grandissima e rimaniamo stupefatti dai progressi raggiunti dai ragazzi. Dobbiamo farlo al meglio perché il cinema è tutt’altro che no profit e i costi necessari a questi risultati non sono facilmente comprensibili per chi considera più importante solo il percorso fatto insieme. La nostra prospettiva, in cui la persona è al centro, rappresenta il cinema che io stesso voglio fare, ritrovandoci anche la Convenzione Onu quando chiede alla società di misurarsi con la disabilità e non viceversa. Devo cambiare innanzitutto il mio sguardo. Ogni persona ha dignità e bellezza tali da essere raccontate in un film. Se saremo stati bravi, ognuno potrà ritrovare se stesso guardandolo.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 159, 2022

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Produzioni fuori dal comune ultima modifica: 2022-10-11T17:58:46+00:00 da Cristina Tersigni

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