Mi chiamo Grazia Maria ho 77 anni e sto pensando ad Alberto, il mio figlio speciale, il mio bellissimo angelo che lo scorso aprile avrebbe compiuto 50 anni.
Avrebbe, perché questo inverno è salito in Cielo.

Cerebroleso dalla nascita e con molteplici gravi patologie, per le quali ha sofferto molto, senza autonomia motoria, dalla sua sedia a rotelle parlava con gli occhi e distribuiva amore, cosa che ha fatto per tutta la sua vita, felice di vivere.
Il Dono che Dio ci aveva fatto e che abbiamo cercato di assistere e curare nel migliore dei modi, sempre pensando al suo bene ed alla sua serenità.
Per la sua sicurezza dopo di noi, qualche anno fa abbiamo compiuto un esame accurato delle possibili soluzioni disponibili, quindi lo abbiamo gradualmente inserito nella casa famiglia Il Carro dove viveva, tornando a casa da noi per quattro giorni una settimana sì ed una no; una decisione all’inizio molto sofferta, ma valida come si è poi rivelata.

È stato accudito nel migliore dei modi con professionalità ed amore come di solito avviene in una vera famiglia. Penso continuamente a lui perché mi mancano tanto i suoi sorrisi, i suoi occhi profondi, il suo viso che si appoggiava al mio quando riuscivo a metterlo seduto sul tavolo e lo stringevo a me, il suo sguardo imbronciato se non mi truccavo e le molteplici espressioni con le quali lui si esprimeva; tutto di lui, mi rendeva felice. Penso che ora è con il suo “amico Gesù”: cammina, parla e non soffre più… visto che in particolare nell’anno 2020 ha sofferto molto ed a lungo.

È possibile descrivere il dolore dei genitori che perdono un figlio? Certamente no, ma poiché mi è stato chiesto se fossi disposta a raccontare gli eventi vissuti lo scorso anno ho deciso di farlo; non mi dilungherò su quello che tutti, purtroppo, conoscono bene per averlo vissuto: i periodi di chiusura totale, la paura del coronavirus, la mancanza degli abbracci, le città deserte e le file di autocarri che trasportavano i tanti morti ai quali era stato negato anche l’ultimo saluto dei propri cari. Condividerò eventi e sentimenti che mio marito ed io non scorderemo facilmente e che sono iniziati i primi giorni di marzo 2020.
Prima che fossero annunciati ufficialmente i provvedimenti inerenti la pandemia, ci stavamo preparando a festeggiare i nostri 50 anni di matrimonio il cui anniversario sarebbe stato il 21 marzo. Il 4 marzo, invece, ci siamo trovati a dover decidere se Alberto, per evitare rischi correlati agli spostamenti peraltro sconsigliati, dovesse rimanere in casa famiglia o con noi.

Il primo impulso del cuore ha suggerito la seconda ipotesi, poi riflettendo sul fatto che non avremmo avuto alcun aiuto esterno, con possibili serie difficoltà a nostro carico per accudirlo, abbiamo condiviso la decisione di lasciarlo in casa famiglia, anche perché non sapevamo quanto sarebbe durata la nuova situazione, che ovviamente ci impediva di andare da lui.
Non vederlo, non poterlo abbracciare, baciare, per me che sono sempre stata molto espansiva è stata una pena, e anche per Alberto non è stato facile. Gli telefonavamo per parlargli ma quell’improvviso e immotivato cambio di programma, per lui che non ha mai gradito gli avvenimenti sconosciuti, lo ha quantomeno scompensato: non si poteva fare altro.

Negli ultimi anni avevamo dovuto sospendere l’alimentazione normale per bocca ed iniziare a nutrirlo tramite una PEG, cioè un tubicino inserito dall’esterno nello stomaco, che riceve il cibo semiliquido gestito da una pompa elettronica. Non avevamo avuto problemi nel tempo, controllando sempre il buon funzionamento di tutto. A fine aprile dalla PEG c’è stato un rigurgito di cibo che, purtroppo, ha causato uno dei possibili gravi incidenti che questo strumento può provocare: una polmonite ab ingestis che si è dimostrata presto molto grave, per cui Alberto una sera è stato trasportato in ambulanza in ospedale lontano da casa.
Il mattino seguente per tempo siamo andati: per la prima volta ho visto le strade deserte e, all’arrivo, una serie di tendoni all’aperto per l’accoglienza dei malati di coronavirus, presidiati da infermieri coperti dalla testa ai piedi. È stata una brutta sensazione! Come prevedibile non siamo potuti entrare e siamo tornati indietro.

A sera per telefono ci hanno comunicato quali interventi avevano attuato, tra i quali i drenaggi del liquido polmonare che aveva impedito di valutare le radiografie; inoltre hanno chiarito di aver praticato un tampone molecolare risultato negativo per il coronavirus.
Poiché la situazione non migliorava è stato trasferito in un altro ospedale, più vicino, dove è rimasto nel reparto di terapia intensiva fino a metà maggio.
Come dimenticare la tensione delle telefonate notturne quando si aggravava.

Le notizie che ci davano ci hanno fatto temere per la sua vita, ed è iniziato il periodo in cui tantissime persone hanno pregato con noi il Signore. Abbiamo potuto vedere Alberto per 30 minuti poche volte: era addormentato e, come è normale in quei reparti, aveva aghi e tubicini vari. Finalmente ero vicino a lui e contenta anche se con il cuore stretto dall’angoscia.
Quando grazie al Signore è stato meglio, lo hanno trasferito in un Centro di Riabilitazione Respiratoria perché potesse recuperare la funzione che ormai era svolta da un solo polmone.
La permanenza in quella struttura si è annunciata subito lunga, però abbiamo potuto vederlo, uno per volta per novanta minuti in tutto, due volte la settimana, anche noi coperti dalla testa ai piedi come gli infermieri. Per fortuna siamo stati aiutati da mia sorella Fiorella, che ogni tanto è andata dal suo amato nipotino al nostro posto.
Potevamo toccarlo solo con i guanti e solo alle mani o ai piedi, quindi nessun abbraccio e nessun contatto con il viso, però vederlo ci ricolmava di gioia.

Tengo a dire che tutto il personale del reparto, medici e paramedici, hanno avuto per Alberto una attenzione scrupolosa sia professionale che umana e tanto amore. Potevamo telefonare anche tutti i giorni per avere notizie e, talvolta, per parlare con lui al telefono.
Alberto per la verità i primi tempi ha espresso in tutti i modi possibili la sua contrarietà per gli eventi e le restrizioni cui era tuttora sottoposto, quindi la ferma intenzione di tornare alla sua vita normale. Mi fissava con espressione interrogativa, per chiedermi perché non lo baciavo e abbracciavo come ero solita fare; ho cercato di spiegargli i motivi ma, ovviamente, ciò che non gradiva faceva finta di non capirlo. Poi, invece, ha dato il via ad un sincero feeling con tutto il personale.

Verso fine luglio sarebbe stato in grado di uscire dal Centro, ma purtroppo un nuovo rischio di rigurgito, fortunatamente evitato in tempo, ha riportato il discorso sul motivo dei rischi che correva; i medici hanno approfondito il problema, e ci hanno informati che c’era la possibilità di sostituire la PEG con altra più perfezionata, che avrebbe impedito la formazione dei rigurgiti. Poteva trattarsi della soluzione ideale per il benessere futuro di Alberto ed abbiamo accettato, pensando che la cosa si sarebbe verificata in tempi brevi. Non è stato così! I giorni sono trascorsi, Alberto era decisamente stanco della situazione e, inoltre, con il mese di settembre come sappiamo tutti, è iniziata la seconda ondata di pandemia per cui a metà mese ci hanno detto che non potevamo più andare a vederlo.

I medici hanno tentato di ottenere che l’intervento potesse avere luogo presso lo stesso Centro ma senza risultato, per cui la degenza è proseguita.
Il ricovero è stato fatto il 22 ottobre. Siamo corsi all’ospedale per accoglierlo all’arrivo dell’ambulanza, ma non ci hanno fatto entrare nel pronto soccorso; uno solo di noi poteva vederlo, all’arrivo, così è andato mio marito: Alberto era semiaddormentato e sereno ma non sappiamo se si sia reso conto che c’era il papà.
Abbiamo cercato di dire qualcosa di lui al medico che lo ha accolto, ma ci è stato solo dato un recapito telefonico per eventuali notizie.
Cosa dire? In breve, non abbiamo saputo in quale reparto fosse stato inserito, alle nostre telefonate non c’è mai stata risposta e non ci hanno chiamati loro, se non per dirci che avevano deciso di fare ricerche approfondite per cui l’intervento era rinviato di 10 giorni.

Il 31 ottobre per telefono mi hanno detto che avevano fatto anche un tampone che era risultato positivo. Il 2 novembre verso le 11,00 ci hanno chiamati per dirci che la situazione era gravissima per cui era il caso che ci recassimo in ospedale. Poco dopo, lungo la strada, altra telefonata per dirci che Alberto aveva cessato di vivere. Ovviamente non lo abbiamo potuto vedere né in reparto né tantomeno nella camera mortuaria. Grazie a Dio abbiamo potuto fare il funerale: almeno in Chiesa siamo stati vicini a lui.

Dalla cartella clinica abbiamo appreso, successivamente, che era stato portato da un laboratorio all’altro e da un reparto all’altro, entrando anche in contatto con un soggetto affetto da Covid.
Quando è stato ricoverato in quest’ultimo ospedale Alberto aveva l’esito di un tampone molecolare negativo e negativi erano quelli fatti nei mesi precedenti.
Otto mesi senza averlo a casa, senza poterlo vedere, o senza poterlo abbracciare e baciare, costretto a letto con periodi di grande sofferenza. Ricoverato infine per un intervento salva vita, vi ha trascorso i suoi ultimi giorni senza potersi lamentare, senza sapere perché avveniva tutto ciò e perché mamma e papà non erano stati vicino a lui nei giorni più gravi della sua vita.
Ora il nostro angelo sa tutto, è felice è vicino a noi e spero che mi aiuterà a rimuovere dal cuore questo masso che ancora mi opprime.
Non ho pianto tanto quanto immaginavo… ma Alberto non voleva vedermi piangere.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 154, 2021

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Mio figlio, che non voleva vedermi piangere ultima modifica: 2021-06-24T14:08:55+00:00 da Maria Grazia Romanini

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