Conobbi Mariangela dopo una delle prime casette che si facevano al Nazareth intorno al 1980. In verità andavo a riprendere Elena, mia sorella: a quel tempo trovavo inspiegabile che si trovasse bene dopo gli incontri ai quali io non partecipavo.

Diverse volte nelle parrocchie in quegli anni ero stato “consigliato” di non disturbare le funzioni pertanto non capivo ancora lo spirito di Fede e Luce. Ricordo che Mariangela mi si avvicinò insieme a due mamme e cominciò con molta discrezione ad interessarsi di Elena e a coinvolgere piano piano anche me.

Sì perché, come fratello, non vivevo bene la mia situazione,non accettavo l’handicap di Elena. Prima di tutto aiutò mia madre a trovare una scuola per Elena. Poi partecipai ad uno dei primi Campi Fede e Luce ad Alfedena, ai katimavik con Jean Vanier, ai pellerinaggi a Lourdes e in rappresentanza dell’Italia a Czestochowa. Ma, probabilmente, portandomi a visitare le prime case-famiglia magari con la scusa di un servizio fotografico, mi stava preparando alla difficile decisione di trovare un futuro dignitoso per Elena.

E credo che questo sia il regalo più bello ricevuto da Mariangela: di avermi preparato con grande pazienza e delicatezza, consigliandomi e sanando le mie ferite, e, non da poco, facendomi riavvicinare alla Chiesa. Fino al giorno in cui mi disse: c’è una signora che intende mettere in piedi una casa-famiglia, vedi un po’ quello che puoi fare! A Mariangela non si riusciva a dire di no, anche quando pochi avrebbero scommesso sulla fattibilità di ciò che proponeva. Adesso dico: ringrazio Dio!

Paolo Nardini, 2014

Estratto dall’editoriale di Ombre e Luci n.16 del 1986

È vero: la sofferenza ci divide dagli altri, ce ne allontana in modo quasi naturale. Più si è colpiti, più si tende a raggomitolarsi, a stringersi in se stessi, a chiudersi e a chiudere porte e finestre, convinti che la solitudine sia quello che ci vuole per sopportare meglio un peso che schiaccia o che travolge.
Ma nel caso di un figlio con handicap, non finiamo spesso per allontanare lui dagli altri che vorremmo invece vicini, partecipi, solidali?
Il soffrire da soli non serve a nessuno, è atteggiamento sterile. Il “farsi prossimo”, di cui tanto si parla, esige da ambedue le parti ci sia volontà di comunicare, per portare insieme quello che sembra un peso insopportabile e che può, proprio perchè condiviso, trasformarsi per lo meno in peso più leggero.
Non è forse questo l’insegnamento più imporante che ogni anno ci ripropone la Luce di Betlemme? M.B.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.128

Il regalo più bello ultima modifica: 2014-12-15T09:11:23+00:00 da Paolo Nardini

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