Se penso a Mariangela, le prime immagini che mi vengono in mente sono di lei come zia. Sono scene nel giardino di casa sua, io piccolo che gioco, da solo o coi fratelli. Nanni doveva essere molto piccolo, Manolo non era ancora arrivato.

Noi a volte chiedevamo cosa avesse Chicca; non ricordo le parole delle risposte, dette forse a volte in modo un po’ secco, altre volte con dolcezza, il senso che coglievo era che Chicca era così e basta, e a me questo bastava. Andare dagli zii significava anche cercare le tartarughe negli angoli nascosti del giardino, osservare l’andare e venire del gatto Mussi, di cui lo zio Paolo raccontava le avventure e le lotte con gli altri gatti; significava, a volte, un giro in Lambretta con lo zio, il massimo del divertimento e dell’avventura, per me e, mi sembrava, anche per lui.

Ricordo una volta che ero a dormire da lei, forse a 7-8 anni; di notte facevo la pipì addosso e dovevo farmi mettere il pannolino, una cosa di cui mi vergognavo. Ma con la zia mi ero sentito a mio agio, con quel modo di fare pratico, deciso, per niente sdolcinato, e insieme accogliente, protettivo.

Nel 1976, quando avevo quasi sedici anni, Mariangela mi invitò al primo campo di Fede e Luce, ad Alfedena. Ero incerto, non sapevo cosa aspettarmi e se ne avevo voglia. Senza troppa consapevolezza ero già stato a qualche incontro di F&L a Villa Patrizi e avevo partecipato alla fiaccolata del pellegrinaggio a Roma. Ma un campo, tutti quei giorni… comunque alla fine decisi di sì e andai.

L’effetto di Alfedena fu quello di essere “rapito” in un nuovo modo di vivere me stesso, la mia vita, i miei rapporti con gli altri. Sono sicuro che il motivo principale è stata la fiducia e la responsabilizzazione che io, Francesca, Pietro e gli altri amici più o meno stessa età, abbiamo sentito allora di ricevere da Mariangela.

Ciascuno di noi, in coppia con un altro amico, era ‘responsabile’ di uno dei ragazzi ospiti del campeggio, sia di giorno che di notte, e nelle varie attività. Mi chiedo se avrei mai avuto la stessa capacità di dare fiducia a ragazzi così giovani. Si è aperta di colpo in quei giorni la scoperta di poter vedere i ragazzi in modo completamente nuovo, le loro disabilità ma anche le loro personalità, capacità, risorse; la possibilità di divertirsi insieme, giocare, litigare, gioire, stare insieme vicini, in silenzio, scoprirsi man mano più legati, a loro e alle loro famiglie.

E si è verificata anche, per me, e credo per la maggior parte di noi, una accelerazione di crescita, di maturità, di sicurezza, di consapevolezza. Essere accolti nel gruppo con un ruolo di responsabilità significava naturalmente anche altri “apprendimenti” fondamentali, pure questi legati allo stile diretto e “senza tante storie” di Mariangela: in quei giorni ho imparato ad esempio tutto sul lavaggio di piatti, cucine e bagni, recuperando di colpo un arretrato che non immaginavo neanche di avere e apprendendo un “sapere” che da allora mi accompagna.

Degli anni seguenti ricordo quando mi spiegava del percorso che aveva iniziato con Chicca, per farle apprendere nuove capacità e possibilità, in particolare nel camminare e mangiare da sola. E ho due immagini vive di quando mi ha parlato della malattia di Chicca e del poco tempo di vita che le rimaneva, una prima volta a un campeggio ad Alfedena, durante una gita; e in un’altra occasione durante una cena estiva nel giardino di casa: ero solo con lei e lo zio, sempre con il loro modo speciale di trattarmi “alla pari”, in modo semplice, affettuoso e diretto e ci aveva raggiunto un altro zio, Beppi, medico, a darci le notizie sul procedere della malattia.

In seguito ho continuato la mia vita e tra le tante ricchezze avute ho sentito di continuare a portare dentro anche quelle ricevute nel rapporto con Mariangela e nell’esperienza in Fede e Luce. Man mano ho avuto meno occasioni per vedere lei e lo zio. Ho cominciato però a chiedere di più ai miei genitori il racconto della storia loro e delle loro famiglie, forse anche per conoscere meglio le mie radici. E attraverso le loro parole – e la lettura di un epistolario familiare – ho potuto vedere Mariangela in modi ancora nuovi, quasi una possibilità di pensare al suo percorso di vita nel suo insieme, dall’inizio alla fine, le ricchezze incontrate, le sofferenze, la sua capacità di fare di queste ultime una base per generare nuova vita, per sé e per così tante altre persone.

L’immagine con cui voglio chiudere questo filo di ricordi è la messa di addio a Mariangela, l’incontro con tante persone e, in particolare, con amici, amiche, parenti, della mia generazione, con cui ho condiviso quei passi importanti della nostra crescita da adolescenti nei campeggi e nelle comunità Fede e Luce, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli ‘80. Nel ritrovarci, nel salutarci, ho sentito che la cosa più forte che ci volevamo dire era quanto il rapporto con Mariangela fosse stato una parte ‘costitutiva’ della nostra vita. Come se, arrivando lì, quella mattina, ci fossimo tutti sintonizzati su questa consapevolezza. Parte ‘costitutiva’, penso ora, che so che ha generato e genererà altra vita, e poi, attraverso questa, altra vita ancora e poi ancora.

Giuseppe Bertolini, 2014

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.128

Effetto Alfedena ultima modifica: 2014-12-15T11:00:23+00:00 da Giuseppe Bertolini

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