Parlare della fiducia non è affatto possibile. La fiducia si vive e si conserva per sempre. Spesso perdiamo stabilità. Come mantenere allora fiducia in se stessi, in Dio e negli altri? La fiducia e la speranza sono un po’ la stessa cosa. Nascono nei momenti bui, nei momenti intollerabili da vivere. In quei momenti, sentiamo qualcosa che ci sovrasta e ci fa resistere.

È una forza, ma non si sa da dove viene. Credo che ci arrivi attraverso le persone che conosciamo: genitori, amici e qualcun altro che è Colui che vive in noi. Anche quando non ne vogliamo sapere più di Lui, Egli ci sostiene e ci dice: “Vai avanti non aver paura”.

Il sorriso di mia madre

Avevo quattordici anni quando ho scoperto (in quel momento l’ho scoperto attraverso mia madre) questa presenza possibile in ciascuno di noi, questa sorgente misteriosa. Mio padre è morto improvvisamente a quarantacinque anni, in cinque minuti. Ha lasciato una famiglia di dieci figli, cinque maschi e cinque femmine, con una mamma piccolina, apparentemente fragile, ma molto grande e molto forte nella sua bontà. Noi abitavamo nel nord d’Italia e mio padre è morto a Roma. Aspettavo il ritorno di mia madre e mi dicevo: “Che succederà adesso? La mamma piangerà? Sarà tutta vestita di nero? Non si riderà più in questa casa dove si ballava e si cantava”… Ho visto mia madre arrivare: aveva un grande sorriso, ci ha abbracciati sorridendo e mi ha detto: “Ho grande fiducia in te, aiutami.”

In quel momento, grazie al sorriso di mia madre, ho capito una cosa molto importante: piangere, essere triste, angosciata, disperata, è facile… Abbiamo tutti nella vita, qualche motivo per piangere . Ed anche per piangere a lungo. E anche piangere sempre e restare continuamente lì a compiangerci. Mentre la reazione più difficile è sorridere, è sorridere nelle ore di grande dolore e di grande lutto. Non un sorriso sciocco, ma un sorriso che dice: ”La vita, aldilà di ciò che può accadere, val sempre la pena di essere vissuta”. Se dico questo non è perché io non abbia sofferto. Sappiamo tutti cosa significhi soffrire. Non è affatto bello, sembra tutto nero. San Francesco di Assisi ha scritto il bel Cantico delle Creature quando era già cieco.

Nella mia vita ho avuto molti periodi dolorosi

Siamo stati fidanzati sette anni perché non avevamo soldi. Dicevamo: ci sposeremo l’anno prossimo, l’anno prossimo e poi ancora l’anno prossimo e passava il tempo… Infine abbiamo deciso di sposarci senza un soldo. Eravamo tuttavia felici. Due mesi dopo aspettavo un bambino. Ero nella gioia più grande, perché entrambi lo desideravamo tanto. L’attesa è stata più lunga del solito. Eravamo già al decimo mese di gravidanza, quando questa bambina è nata. Ho sentito un pianto diverso da quello degli altri bambini. Ho pensato: “ È strano.”

Me l’hanno mostrata ed ho capito che qualcosa non andava. Le infermiere mi dicevano: “È bella, sta bene, sta bene. Ma io continuavo ad essere preoccupata. Ero triste. I medici mi assicuravano che la bambina era normale. Ma noi dal momento della sua nascita avevamo capito che non era come l’aspettavamo. Ad un anno la bambina non pesava quasi niente; non mangiava, non dormiva. Era sconcertante. Ci hanno detto che non vedeva e non capiva. E non era vero!

Siamo andati avanti come abbiamo potuto. Mio marito è più solido di me. È molto forte e coraggioso. Mi ha aiutato molto quando io sono entrata in una specie di parentesi. Non osavo nemmeno piangere. Ero tutta chiusa in me stessa. Insegnavo e facevo tutto quello che dovevo (grazie ad una delle mie sorelle che, la mattina, si occupava di Maria Francesca), ma nascondevo la mia bambina. Paolo, più aperto, più generoso di me, amava Maria Francesca così com’era. Io no. Io ero in terribile rivolta. Non sapevo come poterla amare. Lei era là, ma io non potevo… Non sapevo come raggiungerla.

Nanni, di tre anni più piccolo di sua sorella, sempre così delicato e premuroso verso di lei, soffriva della situazione, senza che io me ne rendessi conto. Mi ha aiutato molto ad uscire dal mio ghetto interiore, in particolare il giorno in cui, all’età di quattro anni, è entrato in cucina e mi ha domandato: Mamma perché non sorridi mai?

Andiamo a Lourdes

Maria Francesca aveva pressappoco otto anni quando mio marito mi ha detto: “Se vuoi andiamo a Lourdes”. Siamo partiti con la bambina. Avevo il cuore chiuso più del solito. Non avevo alcuna fiducia. Tuttavia avevo parlato alla Santa Vergine durante tutti quegli otto anni, con il cuore chiuso. Le avevo detto tutta una serie di cose: “Tu non mi puoi capire. A te, una cosa simile non è accaduta”. A volte l’accusavo e l’invocavo: “Aiutami. Se tu puoi aiutami!”. Non ho mai lasciato né il Signore, né sua Madre. Li avevo un po’ nel mio cuore. Li tenevo così… Credo che mi abbiano ascoltato, anche se non si è visto immediatamente.

A Lourdes è avvenuto ciò che mio marito chiama “il piccolo grande miracolo”. Ero molto cupa. Un giorno la mamma di Sophie mi è passata davanti e mi ha dato un foglietto. Rientrando in albergo l’ho letto: “ Signora, se vuole, venga ad un incontro di genitori di bambini handicappati”. Ho detto a mio marito: “Se vuoi vacci tu. Io non ne ho bisogno.” Mio marito ha insistito: “Ma no, vai, tu devi andarci” ed io ci sono andata con Maria Francesca!

In quel momento ho capito che non ero più sola. Fino a quel momento credevo veramente di essere l’unica al mondo ad avere un figlio così. Lì ho visto altri genitori con figli molto impegnativi, molto difficili. In quel luogo c’era un carico di sofferenza che non si può descrivere senza diventare impudichi.

Durante questa riunione, la mamma che ci aveva invitato ha detto: “Non vale la pena di piangere. Bisogna trovare delle mamme come noi, farle uscire dalle loro case, aiutarle”. Tutto ad un tratto, l’assistente ha iniziato a cantare il Magnificat in francese (ero la sola italiana). Non lo dimenticherò mai per tutta la mia vita… perché sono stata, come dire, assorbita da questo canto. Mi sono detta: “Se questi genitori possono cantare: «Il Signore ha fatto per me cose meravigliose», ci deve essere qualcosa che non va: o sono pazzi loro o io non capisco niente”. E poi ho sentito che anch’io cantavo, con un po’ di fatica, ma cantavo con loro. Questo canto mi ha liberata. Ha aperto un pochino un cuore che era, credo, come una pietra, da anni e anni. Infine ho pianto.

Di ritorno a Roma con mio marito, volevamo far passare il messaggio che avevamo ricevuto ed abbiamo realizzato che mai avevamo incontrato bambini come Maria Francesca, né per la strada, né in chiesa, né nei negozi, da nessuna parte mai. Seguendo l’idea di Paolo, fortificata da Lourdes, sono andata dal mio parroco.

– Ascolti, lei conosce mia figlia
– Si.
– Nella nostra Parrocchia ci sono o no altri bambini come lei? Quante persone siamo in questa Parrocchia?
– 27.000
– Una sola bambina handicappata, mi sembra poco.
– Io non ne conosco altri

A quel punto sono tornata a casa.

Una scuola per Maria Francesca

Una mamma di Lourdes mi scriveva spesso: “Hai trovato qualcuno a Roma?”; rispondevo “No, nessuno”. Poi un giorno un’amica mi telefona: “So dove puoi portare tua figlia. C’è una scuola per lei”. Non ci credevo: “Non è possibile, mi hanno sempre risposto che non c’era niente per lei”. Ma l’amica insiste: “Vacci, vedrai che la potrai portare”.

La prima visita a questo centro mi ha scombussolata. Questa scuola si chiamava: “Serena”, ma questo nome non corrispondeva per niente alla realtà. Mi sembrava una presa in giro per i centoventi bambini e adulti che vi si trovavano, quelli che a Roma chiamano “i più gravi”. E lì avrei dovuto lasciare mia figlia! Se avessi seguito il mio istinto, avrei detto: “Mai nella vita, impossibile!”. Mio marito ed io abbiamo esitato molto. Ci siamo detti: “Ma dove sono i genitori di questi ragazzi? Come vivono? Chi li aiuta?

Se abbiamo deciso di mandare Maria Francesca in questa scuola, è stato anche per conoscere altri genitori.

Comincia la nostra seconda tappa

Ritornati da Lourdes, pensavamo che nostra figlia dovesse ricevere il Corpo del Signore. Era nel nostro cuore, come un desiderio molto profondo,niente di sentimentale. Ne avevamo parlato spesso. È difficile da spiegare: per Paolo e me era un punto essenziale per trovare la forza di continuare, di andare avanti. A Lourdes, ci avevano detto: “Se volete possiamo dare la Comunione a vostra figlia”. Abbiamo rifiutato perché, tornando a casa, tutto sarebbe finito lì. Non ne valeva la pena.

Una bambina di Dio

Può darsi che qualcuno non capisca, ma voglio dire ciò che provavo nel profondo. Avevo davanti una bambina che non interessava a nessuno, di cui quasi mai mi si chiedevano notizie. La tentazione spesso molto forte, molto dolorosa, era: è una bambina? Non ha mai detto una parola. Come scoprire nella sua espressione le parole che aspettavo con tutto il mio cuore: “Ti voglio bene, mamma”? Avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse: “È figlia di Dio come tutti gli altri, interamente”. Per me il segno di questa appartenenza era che Maria Francesca ricevesse il Corpo di Cristo.

Ho cominciato ad incontrare i vari sacerdoti che conoscevo per porre loro questa domanda. Mi rispondevano chiedendomi sempre: “Ma capisce?”, ed io rispondevo: “Ho bisogno che mi diciate : è figlia di Dio? E mi continuate a chiedere se capisce qualcosa! Se la bambina avesse potuto capire non sarei stata qua!”

Ciò che non volevo assolutamente era che i sacerdoti aderissero al mio desiderio per pietà: “Beh, facciamolo, povera mamma, piange, ha bisogno di questo”. No! volevo che fossero convinti! Mio marito è tornato dal parroco, il quale era rimasto scosso e ha passato una intera notte a cercare nei suoi libri di teologia la risposta alla nostra domanda ed ha concluso che non c’era alcun divieto formale.

Abbiamo preparato questo evento, così fondamentale per noi, pregando. Infine ci fu la grande festa per la Comunione di Maria Francesca, un po’ il secondo miracolo della nostra vita. Pensavamo: “Cammineremo con lei e la metteremo davanti agli altri”.

Grazie a mio marito. Lui non si vergognava. Usciva con lei, Io non ne avevo il coraggio. Era molto dura perché tutti si giravano, commentavano. Mi è successo, in spiaggia, di vedere persone fare il giro per vederla meglio.

Dopo il grande mistero del Corpo di Cristo sceso in lei, noi abbiamo preso un grande slancio. Alcuni amici hanno cominciato a venire a trovarci a casa. Si intrattenevano con noi, ci aiutavano, ci invitavano. Non capivo più niente. Ero come ubriaca nel vedere che poco a poco, era lei che attirava tutta una serie di persone. Ma la speranza che cresceva in noi bisognava condividerla. Era un imperativo. Anche se la sofferenza rimaneva, si viveva però in un altro modo, con dei momenti molto belli. Ci siamo ritrovati in quaranta persone, a mangiare insieme, seduti per terra! La casa era aperta.

Ci siamo detti: “Se Maria Francesca fa questo, bisogna che noi lo facciamo sapere agli altri”. Era il periodo in cui Marie- Hélène Mathieu e Jean Vanier, nel 1975, sono arrivati a Roma e ci hanno sconvolto con il pellegrinaggio di Fede e Luce. È stato un evento straordinario pieno di meraviglia, ma quando i pellegrini sono ripartiti, ci siamo detti: “Ora bisogna veramente dare avvio a Fede e Luce!”

Confidando nell’altro

Le persone handicappate più gravi, sono state quelle che ci hanno dato la fiducia necessaria a partire. Loro, loro che non possono niente si affidavano a noi; sono nelle braccia di uno poi passano nella braccia dell’altro e poi ad un altro, li portiamo di qua e di là. Li trasportiamo. E non dicono mai niente. Sono veramente esperti nell’avere fiducia nell’altro.

Abbiamo anche incontrato dei genitori che da 15 anni non uscivano di casa! Queste cose non sono visibili, ma è la pura verità. Per “uscire” non intendo fare la spesa nel negozio sotto casa, ma fare un viaggio, andare in vacanza!

I giovani hanno dato un grande contributo, anche loro ci hanno dato fiducia. Veramente non sappiamo come abbiano fatto ad uscire dalle loro case per venire da noi. Non soltanto una volta al mese , era troppo poco per loro. Dicevano: “Ma così non vi aiutiamo veramente, se veniamo solo una volta al mese”.

È stato un incontro di amicizia talmente profonda, che mi sembra un miracolo sulla terra. Mi domando come sia possibile che dei giovani che studiano medicina, che lavorano, che vanno a scuola, trovino dei sabati pomeriggio o delle domeniche libere per prendere con sé dei bambini difficili e portarli con loro dappertutto, con gioia, si può dire… spensierata. Vanno per la strada, prendono l’autobus; vanno nelle chiese e nelle parrocchie; giocano. E per certe mamme questo è stato un richiamo ad una profonda conversione. Quando ci si converte verso il Signore, ci si converte verso tutto ciò che ci circonda. C’è una direzione nuova per ricominciare la propria vita in un altro modo.

Quando la prova arriva, bisogna trovare il colpevole di questa sventura. Allora si comincia a lanciare il sasso verso il Signore, dicendogli: “Sei tu che l’hai voluto, non ti amo più; io ho un figlio così, vattene non ne voglio più sapere di te”. Questo è successo a noi e accade quasi a tutti, anche a chi non ha avuto un dolore così grande.

Ma non è a causa sua. E per scoprire che non è Lui la causa, attraverso cosa bisogna passare? Un giorno si scopre che Dio è buono attraverso i fratelli e le sorelle che danno un amore speciale.

L’eternità davanti a noi

La cosa più importante per un cristiano è testimoniare che la gioia e la sofferenza possono stare insieme. È terribilmente difficile da vivere. È possibile nella misura in cui confidiamo in Colui che ci ha dato l’esempio e che può aiutarci, se contiamo su di Lui.
Non posso parlare senza emozione della terza tappa della vita di Maria Francesca, tanto dolorosa per noi.

Quando, nel 1978, le comunità di Fede e Luce sono partite per Assisi per il primo pellegrinaggio italiano, Maria Francesca che vi partecipò, prima di essere operata di cancro, diede il suo muto addio ai seicento pellegrini: “Addio, vi ho lasciato il mio messaggio. Quello che volevo dire, ve l’ho detto; ora debbo fare altre cose”.

Ciò che ci ha confidato con tutto il suo amore è che i bambini come lei, misteriosamente, hanno un messaggio profetico per il mondo d’oggi. Noi l’abbiamo vissuto e ci crediamo. “Essi” hanno qualcosa di molto forte da dirci. Davanti a loro non possiamo più parlare in termini di avvenire.

Abbiamo l’eternità davanti a noi. È per questo che essi ci aiutano a convertirci continuamente, giorno dopo giorno, al messaggio delle Beatitudini che Gesù ci ha lasciato.

Mariangela Bertolini, 2014

tratto da una conferenza tenuta a Parigi per l’OCH, anni ‘80

Mariangela Bertolini

Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.

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Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.128

Perché ho avuto fiducia ultima modifica: 2014-12-15T16:40:23+00:00 da Mariangela Bertolini

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