Per la prima volta dopo dodici anni, passiamo delle giornate “normali”. Quattro notti a settimana garantite senza risveglio.
È stato difficile prendere questa decisione: sei mesi di discussioni e di dolorosi sconvolgimenti interiori. Mio marito da parte sua, era convinto che bisognasse arrivarci, ma non voleva impormi niente. Io mi dibattevo tra argomentazioni contraddittorie e sensi di colpa che in sostanza erano questi: Dio mi ha affidato Philippine, per cui, se non me ne occupo più completamente, la tradisco e disobbedisco a Dio. Un’altra parte di me diceva: fisicamente ci stanchiamo molto, Philippine cresce in fretta e ormai occorre che ci facciamo aiutare dagli altri.
È ormai abbastanza grande per sopportare la separazione, conosce l’Istituto dove va ogni tanto per brevi periodi. Non ci “vedrà” per solo tre giorni alla settimana. Lei ha bisogno di genitori e di fratelli in forma …
Va bene, ma… io piangerò quando resterò sola. Cresce di nuovo in me tutta la sofferenza di avere una figlia con handicap e la separazione mi sembra un ulteriore ingiusto dolore.
È stato un periodo di empasse e poi la Provvidenza ha avuto pietà di noi. Il posto in esternato è stato preso da un’altra famiglia che veniva prima di noi e ci è stato detto: “ Non avete altra scelta che prendere il posto in internato”.
Nel corso del mese stiamo vedendo che si è adattata bene e che è ciò che conviene di più per conservare l’equilibrio di ciascun componente della famiglia. Ma sento che debbo fare ancora un lungo lavoro di accettazione. Ancora uno!
Sophie Lutz, 2013
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.122