Da un po’ di anni a questa parte studenti disabili scelgono (o meglio spesso scelgono le famiglie al loro posto) di frequentare i licei: il classico, lo scientifico, e via dicendo, forse perché ambienti più protetti delle scuole professionali.

Le difficoltà, per l’insegnante coscienzioso, si riscontrano quando lo studente viene valutato sulla base dei cosiddetti “obiettivi minimi” da raggiungere per ogni disciplina. Per arrivare a quegli obiettivi, però, le richieste sono ridotte. Gli insegnanti si sforzano e si ingegnano per modificare di poco o, in alcuni casi, anche di molto la quantità dei programmi da preparare, gli esercizi da assegnare, i compiti da svolgere, il numero degli argomenti da conoscere per le verifiche.

Tutto questo avviene con il supporto, preziosissimo, degli insegnanti di sostegno che redigono un PEI (Piano Educativo Individualizzato) contenente una descrizione dettagliata delle problematiche cognitive, affettive, emotive, relazionali riguardanti lo studente con disabilità e tutte le modalità operative del Consiglio di Classe per portare il ragazzo al raggiungimento di un iter formativo apprezzabile sia per la sua crescita sia per il lavoro complessivo della scuola.

Le domande che si pone l’ insegnante sono: come faccio a valutare obiettivamente il percorso compiuto da quel tipo di studente? In relazione agli altri studenti, che compiono un processo di formazione complesso e con richieste, a volte, molto elevate, è giusto attribuire valutazioni che vanno oltre la sufficienza? E soprattutto: poiché tali studenti possono conseguire un titolo di studio che ha lo stesso valore di quello degli altri, e in cui non viene fatta menzione della specifica condizione di disabilità, né del PEI, né delle eventuali prove differenziate effettuate, è giusto che nell’esito finale essi abbiano una votazione più che sufficiente o molto superiore alla sufficienza?

I problemi maggiori sorgono nel confronto che si instaura tra lo studente diversamente abile e gli altri che appartengono alla stessa classe. È chiaro che le condizioni di partenza non sono le stesse e che la programmazione didattica e le verifiche dipendono come conseguenza da tale diversità e dalle diverse esigenze. Ma il nodo cruciale è un altro: il punto d’arrivo, la meta finale. Ad oggi la legislazione italiana prevede che gli studenti disabili delle scuole superiore possano conseguire una semplice certificazione, attestante il corso di studi frequentato, oppure il diploma vero e proprio. In questo secondo caso, il titolo conseguito ha valore legale e sul foglio su cui viene riportata la valutazione non viene fatta alcuna menzione della disabilità dello studente.

Ma c’è da considerare che il ragazzo in questione ha compiuto un percorso di studi differenziato, mirato e calibrato sulle sue reali capacità, con delle riduzioni sulla quantità dei programmi da assimilare, con un minor carico di compiti da svolgere, con delle semplificazioni riguardo alla complessità degli argomenti da studiare, con l’allungamento dei tempi di svolgimento delle prove scritte, con la programmazione delle verifiche orali che non potrebbero essere estemporanee (pena la reazione emotiva difficilmente controllabile), ecc. Naturalmente qui non si discute sul fatto che tutto ciò sia giusto per poter garantire a questi allievi il conseguimento del diploma, ma semplicemente si cerca di rendere chiare le contraddizioni delle modalità di integrazione di chi presenta condizioni di svantaggio.

Inoltre, anche la percezione che hanno i compagni del fatto che lo studente disabile venga “aiutato” dagli insegnanti – a differenza di quanto lavoro in più venga richiesto loro di compiere, dal momento che costoro dovrebbero superare gli obiettivi minimi – diventa un elemento condizionante, che spesso crea tensioni forti nel gruppo-classe. A volte, gli altri studenti chiedono ai docenti di avere le stesse “agevolazioni” del loro compagno, che può presentare delle evidenti difficoltà nell’apprendimento e anche dei deficit cognitivi. Addirittura la presenza di un insegnante di sostegno viene considerata da alcuni come una sorta di “privilegio”, scatenando quindi delle reazioni di rivalità o di invidia nei confronti di persone che invece avrebbero bisogno solo di maggiore attenzione o comprensione, sia a livello umano sia didattico.

Il nodo principale, le cui implicazioni riguardano soprattutto i docenti che devono esprimere un giudizio e che dovrebbero far sì che esso sia equilibrato anche in rapporto agli altri componenti della classe, è che, alla fine del ciclo di istruzione, sul diploma non compare alcun riferimento alla situazione particolare in cui si è trovato lo studente e alle modalità con cui il titolo è stato conseguito. Per dirla in breve: il giovane diversamente abile viene riportato ad una condizione di “normalità” alla stregua degli altri suoi compagni di classe.

Così al termine dell’iter didattico non si tiene più conto di tutte le questioni che si sono dovute affrontare durante gli anni trascorsi sui banchi di scuola. E perché? Non è possibile che di tutto il lavoro fatto dai docenti e dallo studente diversamente abile non rimanga traccia. Questo è quello che prevede oggi la normativa scolastica. Ma in nome di che cosa?

La tutela del diritto allo studio per le persone svantaggiate? Si vuole forse negare tale diritto? Non è invece un’altra testimonianza, questa, del voler nascondere, cancellare, livellare o dimenticare forse l’anomalia, la differenza, la diversità?

Probabilmente tutto ciò è dettato anche dal fatto che predomina ancora nella scuola un vecchio concetto di classe, basato sull’idea che tutti gli alunni debbano essere uguali e che tutti debbano fare le stesse cose ed essere trattati nello stesso modo. Insomma, che tutti debbano essere “uguali”. Ma noi sappiamo perfettamente che non è così. Sappiamo bene che ogni studente è diverso dall’altro e che ognuno avrebbe diritto ad un percorso formativo differenziato, per sviluppare meglio le proprie capacità.

Quindi, perché non differenziare anche il titolo di studio? In fondo, la normativa introdotta dalla Moratti prevedeva che si compilasse un portfolio delle competenze per ogni studente, da compilare durante gli anni scolastici frequentati e da consegnare alla fine del ciclo secondario di istruzione.

La proposta potrebbe essere quella di assicurare sì a tali studenti il titolo di studio, ma di accompagnarlo con una nota che specifichi le competenze raggiunte, il grado di apprendimento maturato, e anche le modalità operative utilizzate per arrivare agli obiettivi prefissati. Sarebbe opportuno stilare in breve un dossier in cui vengano illustrate tutte le condizioni che hanno reso possibile il traguardo finale e anche, in definitiva, il tanto decantato “successo formativo” di cui parla continuamente la legislazione scolastica di oggi.

Chiara Di Serio, 2013

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.123

Il dilemma della valutazione ultima modifica: 2013-09-13T15:35:04+00:00 da Redazione

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