Il rispetto della dignità della persona, in qualsiasi condizione di svantaggio si trovi, è un punto di partenza Strategico, antropologico ed etico, che ha una grande incidenza sulla società, su tutta l’organizzazione sociale e sul modo con il quale si pensa ad una città. Una politica che costruisce il bene comune a partire dalla fragilità, dalla debolezza e dalla vunerabilità, deve cogliere questo rispetto della dignità della persona come un valore imprescindibile. La disabilità fisica richiama con forza questa dimesione. Consideriamo ad esempio cosa significhi il tema dell’abbattimento delle barriere architettoniche sia negli edifici pubblici che privati. Tutto ciò non riguarda solo le persone portatrici di handicap, ma tutta la comunità. Occuparsi di queste problematiche comporta migliorare la qualità della vita all’interno di una città.

Invece, spesso, quando affrontiamo tali temi, vi è una tensione continua che vorrebbe allontanare la fragilità, confinandola nell’istituzionalizzazione. Vi è una cultura di istituzionalizzazione molto pervasiva che ci investe soprattutto dove la sfida di riportare la marginalità al centro è più ardua. Penso alla sofferenza dell’anziano, un fenomeno che sarebbe da affrontare riportandolo sul territorio, facendo appello alla capacità della comunità locale di assumersi la responsabilità del bene comune.

Sarà possibile vincere realmente il processo di de-istituzionalizzazione se sosterremo le comunità locali, partendo dalle famiglie e dal supporto delle persone vicine ad esse, così che si sviluppi una cultura di partecipazione capace di costruire risposte efficaci per chi soffre, di assunzione condivisa di responsabilità.

Questa riflessione porta con sé una dimensione culturale, spirituale e formativa che per noi credenti è estremamente importante. In ogni persona riposa la dignità di essere figli del medesimo Padre. Scorgiamo in questo assunto una domanda forte di riconciliazione e di ricostruzione di relazioni nonostante tutto. Questo vale anche per chi vive altri tipi di istituzionalizzazione. Penso al carcere dove intravediamo la possibilità di un atteggiamento non meramente punitivo, ma di attenzione alla vittima che ha subito un reato che, a sua volta, ha lacerato anche un tessuto sociale. Proprio in virtù di questa lacerazione bisogna far sì che l’azione di recupero non sia semplicemente tradotta con un’azione distaccata di buonismo. Proprio per dare solidarietà alle vittime, esprimendo la vicinanza di tutta la comunità, deve nascere una forza educativa capace di affrontare chi ha commesso il reato entrando con lui in una relazione di risarcimento.

Così vale anche per la grande questione dell’immigrazione. Noi saremmo un paese estremamente segnato da una crisi drammatica se non ci fossero gli immigrati che entrano nel sistema economico, nel sistema di relazioni, così come nelle dinamiche demografiche, così come ci dimostrano le presenze nelle scuole. Ma soprattutto essi sono portatori di una dimensione culturale che è capace di incontrare la nostra cultura spesso chiusa, irrigimentata.

Questa è la nostra sfida, una sfida che per me è caratterizzata anche da una dimensione etica. Partire dai deboli, da quelli che noi abbiamo chiamato ultimi, dalle loro relazioni di fragilità, da tutti quegli orizzonti dove c’è bisogno di lanciare un appello alla società perché si faccia carico delle loro storie. Bisogna immettere un’energia etica e sociale per il bene comune all’interno della società; questo porterebbe a un benessere collettivo, a far star bene tutti sul piano culturale, della coerenza dei rapporti, della trasparenza dei legami.

Tutto questo fa crescere anche il senso del limite, che è fondamentale, in una società multiforme, per rompere tutti gli egoismi corporativi e le chiusure individualistiche che non sono attrezzate per rispondere alle complessità che una società moderna pone.

Non vanno peraltro trascurati lo sguardo e la capacità di umanizzazione della società, portati in primis da chi è ricco di un’esperienza, da chi lavora ad esempio coi disabili, che immette tante attenzioni nel suo operare, da chi non vorrebbe ci fossero le scuole separate, ma che tutti fossero accolti in una dimensione di normalità. Quest’ultima non è fatta da gente che esclude gli altri, è fatta di persone che affrontano tutte le sfide perché sentono di appartenere all’umanità, per usare espressioni che hanno una densità antropologica molto forte. Credo che qui debba nascere il processo educativo, il formarsi degli operatori e di coloro che costruiscono delle risposte anche strutturate istituzionalmente. Al centro non deve esserci il servizio, ma la persona, non la risposta, ma la relazione che spesso mette in moto dei bisogni di cambiamento anche culturali.

La nostra esperienza in Casa della carità, dove accogliamo tante situazioni, con la fatica di ospitare anche chi arriva “sfasciato”, ha vissuto dei percorsi devastanti. Entrando in relazione con pari dignità, dà degli esiti comunque importanti perché nessuna persona può essere allontanata e abbandonata. Penso agli anziani, a chi soffre psichicamente, a quei casi dove, se dovessimo far crescere case di riposo, centri o istituti che allontanino continuamente la sofferenza e che istituzionalizzano il disagio, noi ci troveremmo di fronte a una società molto povera.

Don Virginio Colmegna, 2011

Presidente della Fondazione Casa della Carità

La Casa della Carità

Fondazione istituita a Milano nel 2002 su iniziativa del card. Martini, ha come garanti il sindaco e l’arcivescovo protempore della città. Principale attività è quella di ospitare e prendersi cura di persone in difficoltà e, in forza della quotidiana operatività, anche di ricerca e confronto per raccogliere pensieri, esperienze e pratiche di intervento.
Ogni giorno 150 persone tra uomini e donne, italiani e stranieri, giovani e anziani vengono ospitati e coinvolti nel loro reinserimento sociale, nella ricerca di un lavoro e di un’abitazione. Nella Casa esistono luoghi di ospitalità per mamme sole con figli e per persone sofferenti di disagio psichico, un centro di ascolto, ambulatori di assistenza medica e psichiatrica, uno sportello di tutela legale.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.115

Farsi carico degli ultimi ultima modifica: 2011-09-04T19:54:14+00:00 da Don Virginio Colmegna

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