C’è una forma di ingiustizia nella vita degli uomini che dovrebbe farci pensare e non solo: dovrebbe darci una pena continua e non solo. Dovrebbe ricordarci, ogni giorno quanti fin dalla nascita sono condannati ad essere dei disadattati, fatte salve le dovute eccezioni. E invece ce lo dimentichiamo.

Parlo di tutti quei bambini (poi adolescenti, poi adulti) che nascono in fami glie e in ambienti poveri o privi di beni di ogni genere: soldi, abitazioni, nutrimento, cultura, educazione, affetto…

Ricordo la rabbia che provai — tanto tempo fa — durante un consiglio di classe di mio figlio in prima media. Eravamo a novembre, due mesi dall’inizio della scuola. I professori al completo, ci annunciavano che tre alunni erano già condannati alla bocciatura! Forte della mia esperienza di insegnante, sdegnata da un tale verdetto, espressi la mia meraviglia. “Ma c’è tutto l’anno davanti! Possono cambiare?”. Altrettanto sdegno dalla parte docente: “ Ma signora, uno viene dalla Magliana, uno è ripetente, l’altro è figlio di una che fa le pulizie! Che cosa vuole che cambi!”.

Ecco un esempio tremendo di quanti bambini privi già dalla nascita di tutto l’indispensabile più normale per crescere, si trovano oggetto di discriminazione e di non cura da parte di chi dovrebbe, almeno in parte, supplire a tante carenze.

Indignarsi è poca cosa e non costa fatica. L’importante, mi sembra, è sottrarsi sempre, ogni giorno, all’indifferenza nella quale noi, i “privilegiati”, i “normodotati di ogni bene”, ci siamo adagiati insieme ai più.

Quell’indifferenza che ci offusca la vista a tal punto da dimenticare che lo sdegno che proviamo verso “tanti delinquenti” (di ogni età e di ogni tipo) è banale anche se giustificato. Nel nostro piccolo, ognuno di noi, farebbe meglio a controbattere a certe prese di posizione (“non c’è niente da fare, viene dal tale ambiente, è figlio di…, suo padre è un alcolizzato, ecc.”); ricordare a chi ci sta intorno, di quanti privilegi godiamo noi dalla nascita; di cosa saremmo stati noi, se ci fossimo trovati nelle loro condizioni.

E poi forse fare un passo in più: chiedere a chi sa scrivere, di parlare nei giornali di queste vittime del degrado, non in termini di pietà come si fa ora, dopo che avvengono i “fattacci”. Ma di come urga in modo pressante, che qui nei nostri paesi occidentali, ricchi di ogni benessere e privi di umanità e giustizia, ci si prenda cura in modo concreto di tutti questi fratelli. Dall’asilo, nella scuola tramite associazioni, nelle parrocchie. In parte lo si fa e ci sono molte persone impegnate in tal senso, ma non basta. Accontentarsi dello sdegno, della paura, della difesa e della chiusura nei loro confronti da parte degli adulti è un modo comodo per rimuovere il problema.

Questo accadeva — molto tempo fa — anche nei confronti dei disabili, degli “handicappati”… Noi che da anni ci siamo accostati a loro e alle loro famiglie, abbiamo sperimentato quanto quell’atteggiamento fosse sbagliato e come proprio loro ci abbiano fatto scoprire un modo “terapeutico” e pieno di sorprese per loro e per noi.

Non si dovrà allora intraprendere un cammino di vicinanza e di sguardo nuovi, di impegno costruttivo, per coinvolgere alunni, genitori, insegnanti, amici nei confronti di quanti ci vivono accanto, e che incapaci di esprimere il loro disagio, accettano in silenzio la loro triste ingiusta sorte.

Mariangela Bertolini, 2008

Mariangela Bertolini

Nata a Treviso nel 1933, insegnante e mamma di tre figli tra cui Maria Francesca, Chicca, con una grave disabilità.
È stata fra le promotrici di Fede e Luce in Italia. Ha fondato e diretto Ombre e Luci dal 1983 fino al 2014.

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Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.102

Fin dalla nascita ultima modifica: 2008-06-27T12:08:42+00:00 da Mariangela Bertolini

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