Tanto è stato scritto sui campi, tanto viene detto e ricordato. Raccontare del resto fa parte del gioco, anche se ci si accorge subito quanto sia difficile descrivere a parole le emozioni che dieci giorni passati insieme hanno suscitato e provocato. Emozioni che vanno oltre al fatto che dopo tanta organizzazione si sia partiti mischiandosi tra comunità (amici, ragazzi, qualche genitore); che si siano trascorsi dieci giorni insieme tra cerchi, giochi, preghiere e gite, tra pranzi cucinati, piatti lavati e bagni puliti a turno, sieste (più o meno tali), ospiti in visita… Il campo estivo è la cartina di tornasole di quello che è Fede e Luce – nel bene e nel male. Come un matrimonio esiste nella buona e nella cattiva sorte, o un’amicizia profonda è tale solo se permette l’incontro nella gioia e nella paura: così un campo fa toccare con mano la bellezza, ma anche il dolore di essere una comunità, e di essere in una comunità. E se le comunità volano a volte, a volte inciampano – con il passo del singolo, ora intonato, ora che rischia di perdersi.

Per tanti versi il campo è la continuazione di un anno vissuto insieme. Dopo gli incontri, qualche pizza, un po’ di passeggiate (più o meno frenetiche), tante visite, molte (troppe?) riunioni, si parte. Perché in vacanza si va con gli amici – ovvio, è stata una scoperta del crescere, improvvisamente liberi di scegliere con chi partire. Scegliere? Mmm… in realtà ti accorgi subito che, qualche differenza c’è, al di là di tante parole. Vabbè ormai-l’ho-detto-che-vado (…poche forse quelle riunioni!).

Vivi un campo, probabilmente, perché sei curiosa, spinta dalla voglia di conoscere l’altro e di scoprirlo (finendo poi per scoprire qualcosa anche di te stessa), alla ricerca di un’occasione più profonda per cercare di entrare in relazione con volti, suoni e gesti che non usano quel linguaggio immediato a cui sei abituata. Perché Fede e Luce il tuo tempo, oltre ad occupare ed arricchirlo, lo rallenta; rende denso un passaggio che “fuori” non avresti notato. Perché se un sorriso, un pianto, una botta o uno sguardo sono l’unico canale che hai per tentare di capirci qualcosa, non sarai mai così ricca da poterli sprecare. E dieci giorni e nove notti ti offriranno una miriade di occasioni per ascoltare; sentendo anche cose che non ti piaceranno: perché della luce parlano tutti, del buio meno.

Come immagini (prima) e sperimenti (poi), un campo è un inestricabile concentrato di sensazioni. C’è la gioia di stare insieme, il tentativo di condividere un gesto e le mosse di una canzone, gli infiniti modi di pregare, ringraziare e chiedere aiuto, lo stupore di sentirti vicina a chi credevi troppo diverso, il mistero di volti in cerchio ognuno con la sua storia e il suo modo di dirti, e darti, coraggio (e di ridimensionarti). Ma c’è anche tanto, tantissimo rumore quando vorresti il silenzio, c’è la difficoltà di un’incomprensione che (con la stanchezza) diventa un muro, c’è la solitudine a volte – pur nel vortice di così tante bocche che parlano; e c’è quel domandarsi perché, un tarlo che lavora implacabile dentro di te e che rischia di farti sentire davvero troppo impotente. Già, partendo ti sei caricata tutto il pacchetto. C’è anche la fatica in un campo, la paura di mostrarsi per ciò che si è, lo sforzo di ascoltare quando nessuno sembra aver tempo per te, lo sconforto per un pianto che non riesci a decifrare.

Ma su tutto, il campo è cercare di starci (almeno per un po’) su questa benedetta barca. Di viverci. Basta salire in visita; basta farsi belli dal pontile, disapprovare chi non accetta la sua situazione; basta pontificare su cosa significhi navigare insieme con chi ha dei problemi, diversi e più eclatanti dei miei, sapendo benissimo che poi però la mia vita quotidiana è giù, al riparo sulla terraferma. Un campo è condividere appieno (o almeno cercare di condividere) qualche momento della traversata, essere vicini e insieme quando il mare improvvisamente si ingrossa, e quando è calmo. Giornate (dalle colazioni ai cambi, dai giochi alle crisi, dalla musica al grido) e nottate (stonate a volte: in bianco anche quando tali non le vorresti) che altro non sono se non la piccola, grande occasione che ciascuno di noi ha di percorrere un tratto di strada davvero insieme a chi è Fede e Luce. Finalmente lungo un cammino in cui non ci si limita più a tenersi per mano (come durante l’anno), ma si tenta di prendersi per mano. Sempre, consapevolmente, in punta di piedi.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 81 del 2003

Copertina OeL 81 - 2003

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Cercare di starci su questa barca ultima modifica: 2003-01-08T09:19:13+00:00 da Giulia Galeotti

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