Si parla sempre della madre. Tutti capiscono, comprendono la mamma di un figlio handicappato. Pochi parlano del padre e pochi se ne preoccupano.
Ma forse il padre di un figlio con handicap non soffre di meno!

Se i due genitori non sono molto vicini l’uno all’altro, se il papà non entra presto in contatto con il bambino, rischia di sentirsi escluso e sprovveduto.
In Norvegia c’è l’uso che il figlio perpetui il nome e assuma la responsabilità della discendenza. Questi schemi sono senza dubbio più viscerali in noi di quanto ci piaccia confessarlo.
I successi relativi che, fino ad oggi e malgrado tutto, ci sembra aver ottenuto, sono dovuti, a mio parere, in gran parte al fatto che Dag Tore fin dall’inizio ha avuto due genitori.
I ragazzi che come lui hanno un «ego» fragile e poco cosciente, hanno bisogno in modo speciale di una relazione intima con il padre. Dag Tore sa sciare. Ha resistenza in montagna e nella foresta; ama la barca e il canottaggio. E’ capace di spaccare e segare la legna. Tutto questo l’ha fatto con suo padre fin da quando era bambino.
E abbiamo potuto, suo padre ed io, darci il cambio nei periodi più estenuanti, in modo che sia un po’ più facile non perdere coraggio. Essere schiacciati dalle stesse pene porta ad attenuare la fatica e rinforza la sollecitudine.
Ma siamo ancora a metà strada.

Dal libro «Mon enfant qui ne parlait pas» (Mio figlio che non parlava) di Tordis 0rjasaeter — Ed Ceri 1978 p. 32-33) libro che speriamo veder presto tradotto e pubblicato in italiano
Con suo padre ultima modifica: 1987-12-29T10:42:35+00:00 da Redazione

Ogni mese inviamo una newsletter

Ci trovi storie, spunti e riflessioni per provare a cambiare il modo di vedere e vivere la disabilità.

Se prima vuoi farti un'idea qui trovi l'archivio di quelle passate.

Ti sei iscritto. Grazie e a presto... anzi alla prossima newsletter ;) Se ti va, quando la ricevi, facci sapere che ne pensi. Ci farebbe molto piacere.