Maria Francesca ha avuto nei suoi sedici anni di vita uno sviluppo totalmente anomalo: non parlava, non camminava, mangiava con grande difficoltà; non partecipava alla vita di relazione, e il suo fisico è stato sempre notevolmente al di sotto della norma…

Curiosamente, si parla sempre molto poco dei papà, anche nei libri e negli scritti dedicati alla famiglia e ai suoi problemi. L’interesse degli autori si rivolge infatti soprattutto alle mamme. C’è poco spazio per la figura del padre anche nei discorsi di quanti, pur non scrivendo né libri né saggi, si occupano e trattano della famiglia e dei suoi problemi: medici, psicologi, pedagogisti, assistenti sociali, giornalisti e, perché no? Sacerdoti ed uomini di Chiesa. Anche il loro interesse si rivolge soprattutto alle donne.

Nemmeno «Ombre e Luci», che pure si definisce «rivista cristiana delle famiglie e degli amici delle persone con disabilità», ha fatto eccezione. Ha parlato dell’esperienza della solitudine, della speranza messa a dura prova, del problema delle vacanze, dell’accoglienza da fare ad un figlio “diverso”. Ha trattato dei problemi e delle difficoltà di un bambino mongoloide o psicotico, della necessità di essere forti per «loro», dei fratelli e delle sorelle, della «casa-famiglia», delle persone «murate nell’oscurità e nel silenzio»… Ma è dovuta arrivare alla fine del sesto anno della sua vita, per accorgersi finalmente dell’esistenza del papà di un portatore di handicap. Non intendo a fare una critica: lo dico sorridendo. Sono un papà, e ho imparato ad essere sottinteso.

Mia figlia, che — come ogni donna — la sapeva lunga, aveva un suo ragionevole modo di spiegare questo buffo mistero.

Maria Francesca ha sempre dimostrato nella sua vita la più grande noncuranza per il mondo e per le leggi che lo regolano: tanto che, se pure se ne era resa conto, sembrava molto poco convinta della necessità di dover mangiare, per sopravvivere, della convenienza di dover dormire, e dell’opportunità di dover anche crescere e svilupparsi, una volta che si fosse nati. Perciò ha ottemperato a queste norme con saggia prudenza, anche a costo di suscitare l’allarme e la preoccupazione dei suoi genitori. Di fronte ad una società umana, nella quale si chiacchiera fin troppo e ci si muove oltre misura usando di tutti i mezzi messi a disposizione dalla tecnica moderna, ha scelto saviamente di tacere; e, quanto allo spostarsi, ha sempre preferito farlo con non comune cautela e solo dopo aver ponderato con cura, se ne valesse effettivamente la pena.

Tuttavia, con i suoi tranquilli occhi grigio-azzurri, dal suo posto di osservazione, in casa e fuori, notava ogni avvenimento, ogni cosa ed ogni persona, e ci faceva sopra i suoi ragionamenti. Difatti, quand’eravamo soli e lei si rannicchiava sul mio petto, appoggiando la sua testolina castano-dorata alla mia guancia, mi comunicava in silenzio i risultati delle sue indagini e mi riferiva il suo punto di vista sulla situazione.

«È naturale – mi diceva allora – che la mamma sia al centro dell’attenzione di tutti quando le cose vanno bene e quando invece sembrano andar tutte per il verso sbagliato. La mamma ha portato con sé il suo bambino: per nove lunghi mesi lo ha sentito crescere — carne della sua carne, sangue del suo sangue — nel suo grembo; per nove lunghi mesi ha parlato in silenzio con lui, proprio come noi stiamo facendo adesso. Lo ha sentito muoversi dentro di lei: prima piano, timidamente, poi sempre più forte, con sicurezza sempre maggiore. Si è abituata, in quei nove, lunghi mesi, a cambiare per lui il suo modo di vivere, a porre in secondo piano le proprie esigenze, a rinunziare ai suoi gusti (pensa: mangiare senza sale!), a mettere da parte i suoi piccoli vizi, come quello del fumo…

«È in questo periodo che si instaura quel misterioso, indicibile rapporto, che trova il suo suggello nel meraviglioso momento della nascita e che lega per sempre la mamma al suo figliolo».

«Già — rifletto tra me — il papà rimane escluso da questo tacito, affettuoso legame fatto di carne e di sangue, di rinunzia e di amore, di apprensioni e di attese…». Maria Francesca interrompe il corso appena iniziato dei miei pensieri:

«Non è vero! Almeno in parte — contesta — vi partecipa invece per quanto vivi e profondi sono il suo affetto e la sua intesa con la mamma del suo figliolo. Le vuole bene: perciò ha fiducia in lei ed accetta ed ama fin dal primo momento, come proprio, il figlio di lei. Attraverso di lei segue con ansia ed orgoglio il silenzioso e prorompente sbocciare della nuova vita nel grembo di lei. Per amore di lei accetta i limiti e le difficoltà della mutata situazione familiare; per amore di lei, nonostante la goffaggine che è propria del maschio, il papà è capace di preparare un nido accogliente ad uno sconosciuto, ad acconciarsi alla sua presenza… ingombrante, a prendersi cura di lui, a volergli bene. Sì, è giusto che la mamma sia sempre in primo piano».

Tace per un poco, e poi conclude: «Nella famiglia il papà deve essere sempre presente, non deve spiccare. Il suo ruolo è quello di proteggere, coprire, sostenere; di osservare, di cercare di capire e consigliare, di correre ai ripari. Di saper ascoltare anche quando non ne ha voglia. È l’amore della mamma che lega il papà al suo bambino. Qualche volta, però, è l’amore del papà che riconcilia la mamma al proprio figliolo».

«Qui si si entra nell’alta filosofia!», esclamo dentro di me.

Lei si limita a guardarmi da sotto in su, con la coda degli occhi. Mi deve considerare molto poco perspicace. Col ditino in bocca, prosegue quieta: «Quando il bambino viene alla luce ed è…» — ha un attimo di esitazione, come se volesse trovare la parola giusta — «…diverso, la mamma si sente coinvolta con tutto il suo corpo, con tutto il suo cuore, con tutta la sua mente. È lei stessa che si chiama in causa, in prima persona, per non essere stata in grado di “costruire” un figlio come tutti gli altri: non è stata all’altezza del compito suo più grande: quello per cui lei stessa — sa che è così, anche se nega che lo sia — è venuta al mondo. Si sente oltraggiata nella sua natura, menomata nella sua persona, tradita nell’amore del figlio che ha religiosamente portato e nutrito per nove mesi, beffata dal buon Dio, che in realtà in quei frangenti non le sembra né buono né provvidente. Nel suo intimo si sente sempre e comunque, lei e lei sola, in qualche modo responsabile della “diversità” del suo bambino — anche quando afferma il contrario».

«Allora la mamma si chiude in se stessa e nel suo dramma, sbarra il suo cuore e la sua anima a tutti, compreso il marito, che poi è il papà del suo bambino: muta e impietrita nel suo mondo dolorante, ma selvaggiamente pronta ad insorgere contro chiunque in difesa di quel figlio “diverso”, che rifiuta ed al quale, nello stesso tempo, si sente legata indissolubilmente. Si copre con una corazza di gelo e respinge ogni manifestazione di affetto sensibile che le possa venire dal marito, ma che lei non è nelle condizioni di accettare e di capire».

Amare non è appagare se stessi. Amare è andare incontro a chi si ama, oltre la ragione, il senso e l’utile, donandogli quell’aiuto di cui ha bisogno per poter tenere aperte le ali — nonostante tutto — nel cielo della speranza e della pace».

«È il momento in cui il papà deve più che mai svolgere il suo ruolo. Il papà, che ha conosciuto il suo figlio solo quando suo figlio ha visto la luce; il papà, che non ha mai potuto parlare con lui, prima; che non lo ha accolto nel suo corpo, che non lo ha nutrito col suo sangue, ma che lo ha amato come frutto del suo amore, che lo ha sognato come compagno nello svago e nel lavoro, come il vero amico con cui potersi aprire, come la realizzazione di quello che lui, il papà, avrebbe voluto essere; il papà, ferito anch’egli e dolorante, deve avere il coraggio di spalancare le braccia al nuovo nato, deve avere la forza di rinunziare alle sue attese. Il papà, che — soprattutto quando è stanco, sfiduciato, avvilito — ne ha tanto bisogno, deve avere la forza di sapere rinunziare alle carezze e alla vicinanza della moglie. Deve trovare l’animo di rimanere, insomma, ancora una volta in secondo piano».

«Amare non è appagare se stessi. Amare è andare incontro a chi si ama, oltre la ragione, il senso e l’utile, donandogli quell’aiuto di cui ha bisogno per poter tenere aperte le ali — nonostante tutto — nel cielo della speranza e della pace».

«Il papà, allora, manda giù le sue lacrime: non ha tempo per piangere. Sorride alla mamma, per farle tornare il sorriso sulle labbra. Sorride al figlio “diverso” e lo stringe al petto, per fargli sentire che è giunto a casa sua, e che è amato. Lo prende tra le braccia, per far capire alla madre che le è riconoscente. Lo circonda di cure e di affetto perché sa che chi è nato dalla carne e dal sangue di un uomo e di una donna è uomo, anche se non ne sembra avere l’apparenza. Lo ama, e vuol togliere ogni dubbio alla mamma. Vuole farle intendere che per lui quel figlio ha un valore inestimabile, unico: perché è figlio di Dio, ed ha un destino immortale. Perché Gesù è nato, ha patito, è morto ed è risorto anche per lui».

«Il papà lascia fuori dalla porta la stanchezza, quando rientra dopo il lavoro. Non cerca per sé un po’ di tranquillità, o un po’ di quiete. Non è il momento, quello, di essere stanchi. Bisogna dare alla mamma spazi di riposo e di distensione, non altri problemi. Perciò le parla serenamente della sua giornata e l’aiuta, mentre lei accudisce al bambino. Le dà una mano e la sostituisce — per quanto può — nelle faccende di casa. Segue per lei gli altri figli, se ci sono. Se ne ha la possibilità, la invita ad uscire. Si alza lui, la notte, quando il bimbo si lamenta: lo veglia per lei, quando non vuol dormire».

«Il papà mette da parte ogni avvilimento ed ogni dubbio. Non si può essere sfiduciati quando si accompagna la propria moglie ed il proprio figliolo “diverso” nell’interminabile, doloroso pellegrinaggio da uno studio medico all’altro. Non ce n’è la possibilità, perché bisogna reagire contro il senso di frustrazione e d’impotenza, contro l’amarezza, il dolore e i moti di rivolta che minacciano di travolgere la mamma, sottoposta com’è a quello che le appare un continuo, umiliante, sempre rinnovato, processo a suo carico. Il papà dev’essere coraggioso, deve sapere sempre trovare la parola giusta per non farla sentire sola, per darle la sicurezza e la forza di proseguire il cammino, di affrontare la realtà e di accettarla facendola propria; semplicemente, con fiducia».

«Chi ha fiducia, dimostra di avere fede. Chi ha fiducia, dimostra che spera. Chi ha fiducia, dimostra che ama».
«E quello di cui ha bisogno la mamma. E quello di cui ha bisogno il figlio “diverso”».

«Quanti sanno, papà, il dolore e le amarezze, la solitudine, che avete dovuto vivere? Quanti conoscono i vostri singhiozzi senza lacrime, i vostri pianti silenziosi, la desolazione delle vostre anime di fronte a un futuro apparentemente senza speranze? Quanti hanno misurato gli sforzi che avete fatto per sedare la rivolta della vostra anima, per vincere la tentazione di abbandonare tutto e smettere di lottare; per passare sopra le ansie che suscita in voi il pensiero dell’avvenire del vostro figlio e della sua mamma? Ai papà non interessa, che questo si sappia. I papà hanno in genere un grande pudore dei loro sentimenti. Non ritengono importante che se ne parli, non si mettono in mostra. E, baccano, lo fanno solo qualche volta, quando proprio non ne possono più.»

«Ai papà basta che il sorriso sia tornato a illuminare il volto della mamma e che risplenda, ora, su tutta la famiglia; che lei sia uscita, con l’aiuto del buon Dio, dalla prigione in cui si era murata ed abbia aperto le porte del suo cuore e della sua casa a tante, moltissime persone. Che ora non abbia più vergogna ad uscire per strada con il suo figliolo. Che si sia fatta tanto umile e obbediente, da accettare con fiducia la volontà del Signore.»

Sento passare sul mio volto, con tocco gentile e lieve, la manina di Maria Francesca.

Che volete, di più?

Paolo Bertolini, 1987

Quanti sanno? Il silenzioso impegno dei papà, una voce spesso inascoltata ultima modifica: 1987-12-30T11:04:00+00:00 da Paolo Bertolini

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