Trentacinque persone (9 ragazzi h.m. anche gravi, 4 mamme, 1 sacerdote, amici, compresi bambini problema), due casette incastrate l’una nell’altra, un bosco di castagni e lo splendido panorama dei Castelli Romani: questi alcuni degli elementi per un campeggio estivo. «Trentacinque persone? non siete un po’ troppi?» commentavano dubbiosi quanti assistevano ai lavori di preparazione. Noi ci guardavamo negli occhi e cambiavamo discorso, confidando negli altri amici, sicuri della loro maturità ed esperienza. «Ma quelle casette… non sono un pò scomode? Tutte quelle scale, il giardino con quei vialetti tortuosi, con tutte le carrozzine che avete?!» Stessa occhiata d’intesa, cambiavamo discorso confidando nelle spalle e nelle braccia dei più robusti fra noi. «E per l’organizzazione della giornata, avete pensato, per esempio, cosa significa preparare da mangiare per tutti?» si tirava fuori la lista di mamme (ben quattro) con credenziali di tutto rispetto. Fra un’occhiata e l’altra, arrivò anche il giorno di partire per davvero: per partire, si partì, per l’arrivo, invece, si ebbe qualche problema.

Gli amici erano lì già dal mattino, mentre i ragazzi arrivarono nel pomeriggio, e questo sistema degli arrivi differenziati risolse molti problemi pratici. Il campo si presentò subito nella sua realtà più piena, senza negare colpi di scena ed imprevisti e ci accorgemmo presto che si doveva lavorare bene tutti quanti se si voleva andare avanti.
Con uno schema che deriva ormai da quasi 10 anni di esperienza, la mattina, dopo il cerchio, si facevano i servizi che si svolgono quotidianamente in ogni famiglia. A turno, se possibile con i ragazzi, si preparava la colazione, si cucinava, si facevano le pulizie, si apparecchiava, quasi come a casa. Per chi non era di turno rimaneva sempre qualcosa da fare: trapiantare nuove piantine, riverniciare le panchine, o partecipare a una grande «guardie e ladri».

Dopo il pranzo e un momento di riposo, altre attività: disegni, brevi passeggiate, o semplicemente un po’ di canti insieme, giochi (da audaci «nascondino» nel bosco ad agguerrite «cacce al tesoro» per tutto il grande giardino), la merenda. Più tardi c’era la Messa o un momento di scambio e di preghiera in comune, quindi la cena e in seguito la veglia. Descrivere quello che poi, all’interno, ognuno provava in quei giorni sarebbe difficile e azzardato. Tuttavia il ricordo non può alterare la luce che correva negli occhi di tutti e il soffio che cantava nel petto di ognuno. Che si stesse lavando per terra, suonando la chitarra, o mangiando la macedonia per la festa di Vittoria, si era lì per tornare all’essenziale; senza fare grandi cose (avreste dovuto vedere quelle piantine come erano ridotte dopo pochi giorni) ma a poco a poco lasciandoci guidare dai più piccoli sulla via del necessario, senza fretta, senza paura. E il tema del campo faceva capolino nei momenti (ci sono sempre) di maggior tensione, preoccupazione, nervosismo : «Perché avete paura? (Mt 8 , 26 )».

Debbo ammettere che ci è stato indispensabile l’esempio dei più giovani che forse vivevano meglio di noi questo spirito di disponibilità serena. Come scordare quei tramonti dietro il Lago di Albano che interrompevano le nostre cene distraendoci con la loro festa di colori e di poesia. C’era in effetti un po’ di malinconica poesia in quello scrutare lontano, quasi una nostalgia anticipata di quello che in quei giorni si viveva e ci faceva sentire così lontani dalla vita di tutti i giorni. Stavamo lentamente liberando il nostro cuore ai sentimenti più puri, riscoprivamo tenerezza, sincerità, fiducia, seguendo i passi che i più piccoli avevano fatto davanti a noi, e ad un prezzo ben diverso dal nostro. Ammettevamo sorridendo di scoprire e di vivere realtà che nel mondo di oggi sono assurde. E al momento della partenza è rimasto un piccolo seme di tutto questo e come «una quasi decennale esperienza» insegna non sono mancate le lacrime. Ma che significato avrebbe avuto restare lì in eterno, se non quello di godere fra noi quell’isola che avevamo trovato? A parte il fatto che gli ultimi giorni eravamo tutti stanchi morti e sarebbe stato impossibile continuare, non sarebbe forse sembrato uno sminuire quel dono che avevamo ricevuto?

«Tutto deve finire…» concluse uno scuotendo la testa e un mio amico lo guardò sorridendo. «Non finisce niente!» gli rispose battendogli una mano sulla spalla: «È proprio ora che comincia il bello!»
Non capii subito che cosa avesse voluto dire, ma tornato a casa rileggevo una pagina di Tagore: «Perché la lampada si è spenta? Le feci scudo col mio mantello per salvarla dal vento, ecco perché la lampada s’è spenta,»! Cominciavo anch’io a capire.
Tutto sommato è stato un buon campo caratterizzato da un rapporto personale molto intenso con i ragazzi, e questo è un punto fondamentale che conferisce ad ogni campo una qualità propria. Fra le cose da rivedere, invece, per un’altra volta, due sono le principali: una migliore coordinazione delle attività, qualche momento in più per approfondire la conoscenza fra gli amici. È evidente che il numero di partecipanti e il luogo hanno contribuito a rendere difficili l’aspetto organizzativo e personale, ma son sicuro che con un pizzico di attenzione in più si potrà far meglio.

Nanni, 1986

Perché la lampada si spense?

Perché la lampada si spense?
La coprii col mantello
per ripararla dal vento,
ecco perché la lampada si spense.

Perché il fiore appassì?
Con ansioso amore
me lo strinsi al petto,
ecco perché il fiore appassì.

Perché il ruscello inaridì?
Lo sbarrai con una diga
per averlo solo per me,
ecco perché il ruscello inaridì.

Perché la corda dell’arpa si spezzò?
Tentai di trarne una nota
al di là delle sue possibilità,
ecco perché la corda si spezzò.

Rabindranath Tagore, Poesie Newton & Compton, 1971.

Questo articolo è tratto da:
Ombre e Luci n.11, 1985

Sommario

Editoriale

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Vita Fede e Luce n.11- Ora comincia il bello ultima modifica: 1985-09-10T18:30:37+00:00 da Redazione

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