L’anno prossimo per il Museo tattile Omero di Ancona saranno trent’anni di vita. Trent’anni contrassegnati da cambiamenti, trasformazioni, evoluzioni. «Quando siamo nati, nel 1993, ci chiamavano pazzi, eravamo l’unica realtà a voler sovvertire quell’aprioristico concetto di “vietato toccare”, tuttora presente nei luoghi dell’arte italiani, europei e internazionali. Non che oggi spazi simili al nostro esistano in gran numero, ma c’è da dire che qualcosa, in termini di sensibilità, sta muovendosi». Parola del professor Aldo Grassini, presidente del suo “Omero” che, nella sede della Mole Vanvitelliana, è passato a essere, da museo comunale, vero e proprio museo statale. «E non museo per ciechi, ma museo per tutti: dove chiunque, vedente o non vedente, può fare esperienza dell’arte tramite il tatto che, diciamolo, non è sostitutivo della vista, bensì un ulteriore modo per fruire della bellezza, per conoscere la realtà e viverla sia da un punto di vista estetico sia da un punto di vista emotivo».

Altro cambiamento che nel tempo ha investito il Museo “Omero” è il numero delle sue opere. «All’inizio – prosegue Grassini – avevamo solo diciannove pezzi, occupavamo tre aule: oggi, al contrario, esistiamo su circa 2700 metri quadri e contiamo ben oltre duecento opere. Si tratta di riproduzioni dei grandi capolavori dell’arte classica; di pezzi, presenti all’interno di una galleria ad hoc, di arte contemporanea: tutti originali; di modellini di monumenti famosi e, infine, dallo scorso dicembre, di una collezione di design italiana fatta di trentadue opere che hanno quasi tutte ricevuto il Compasso d’oro».

Quando siamo nati ci chiamavano pazzi, eravamo l’unica realtà a voler sovvertire quell’aprioristico concetto di “vietato toccare” tuttora presente nei luoghi dell’arte

La prima opera a venire acquistata? Grassini non ha dubbi. «La riproduzione della Venere di Milo. Quella vera sta al “Louvre” di Parigi, ma noi abbiamo la nostra, rapporto 1 a 1, ricavata, come tutte quelle esposte, dal calco della scultura originale. Ho desiderato averla perché nel corso della mia vita mi sono sempre chiesto come fosse fatta: l’idea stessa del Museo nasce da me e da mia moglie, dalla nostra frustrazione, quella derivante dall’andare in giro per il mondo, entrare nei luoghi della cultura e averne impedito l’accesso. Da non vedenti, la nostra battaglia è stata e continua a essere quella di rendere, così com’è prescritto dalle costituzioni e dalle carte dei diritti, e così come dovrebbe essere, l’arte accessibile a tutti». Un discorso complesso. «È assolutamente complesso – ribadisce Grassini –. Noi non pretendiamo che ogni opera, all’interno dei musei, possa essere toccata, soprattutto qualora il tatto possa recarvi danno; ma desidereremmo che per i ciechi vi fossero delle deroghe e che, come accennavo, non tutto venisse vietato a priori. Esistono i guanti, esiste l’igienizzazione, e tanti altri metodi per far fruire a tutti dell’arte».

Al Museo “Omero”, intanto, senza problemi, si può toccare e, quindi, vedere. «Toccare è un verbo troppo generico. A me piace utilizzare maggiormente l’espressione “accarezzare”. E poi da noi tutti, compresi i vedenti, possono farlo, scoprendo così il piacere del contatto con le cose: una relazione con l’arte, si può dire, che diventa più intima, profonda, personale. Perché una cosa, per esempio, è vedere una superficie, un’altra è toccarla: in questo senso le sfumature sensoriali sono diversissime, oltre che molteplici». Accessibilità, inclusione, democrazia sono, dunque, i concetti base su cui si fonda il Museo “Omero” che, con all’attivo anche una serie di laboratori e iniziative didattiche, è intitolato, non a caso, al più grande artista cieco della Storia. «Non uno scultore, ma comunque – termina Grassini – un poeta universale: motivo per cui, quando trent’anni fa, dovetti decidere a chi intitolare questo spazio, non ci furono dubbi». Da qui, insomma, uno spazio omerico, un Museo grandioso: per i principi d’eguaglianza a cui si ispira, per la battaglia che ha intra- preso e che continua a combattere.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n. 160, 2022

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