La Mostra del Cinema di Venezia ha celebrato la sua ottantesima edizione con il consueto ricco programma di film, stavolta accompagnati da meno star del solito per lo sciopero degli attori hollywoodiani. Nonostante ciò, il programma non ha subito conseguenze anche perché, quando parliamo di Mostra del Cinema, ci riferiamo a un evento che ne contiene tanti: dai concorsi ufficiali (Leone d’Oro a Povere creature! di Yorgos Lanthimos) alla selezione di film restaurati, dalle due sezioni autonome e parallele piene di eventi e ospiti (Giornate degli Autori e Settimana della Critica) alla sezione dei film in realtà virtuale Venice Immersive che si tiene interamente nella piccola isola del Lazzaretto Vecchio, a pochi minuti a piedi e poi in barca dal Palazzo del Cinema.

Una sezione meno nota, quella virtuale, nella quale le esperienze visive sono quasi tutte individuali: un visore copre interamente il volto, si indossano cuffie per l’audio e, quando parte l’esperienza, ci si ritrova immersi in filmati a 360°. Sono molte le potenzialità di questo mezzo: ci sono videogiochi interattivi o film in cui lo spettatore viene completamente guidato alla visione senza poter in nessun modo intervenire, come in un film bidimensionale ma con una visione allargata. Tra le tante, si può vivere la sensazione di immedesimazione con qualcuno che abbia una malattia che lo spettatore non ha. Era capitato qualche anno fa con la schizofrenia, nel film premiato Goliath: Playing with Reality, ed è capitato anche in questa edizione con un paio di opere in concorso.

Donna con un visore per la realtà virtuale

Una delle sale della realtà virtuale della Biennale di Venezia

Il Premio per la Realizzazione Venice Immersive è stato assegnato a Empereur, di Marion Burger e Ilan Cohen, che suggerisce – di più sarebbe impossibile – cosa provi chi ha l’afasia. Il padre della regista è afasico da anni a causa di un ictus: è la figlia, per prima, a presentarci i suoi ricordi di quegli eventi attraverso disegni in bianco e nero, non realistici ma molto coinvolgenti. C’è poi un cambio di prospettiva e si entra nei panni del padre afasico, cui la figlia tenta di insegnare di nuovo a scrivere, a esprimersi. L’interattività consiste anche nel fare alcuni semplici esercizi, guidati dalla figlia, che risultano difficilissimi da portare a termine, e sono sbagliati anche quando si ritiene siano giusti: c’è la sensazione sfiancante, per fortuna solo sfiorata, di riuscire a ragionare senza potersi esprimere. Ci si sente davvero fragili e soli, anche isolati dal mondo reale a causa del visore. Basandosi sulle poche cose che il padre le ha comunicato nel corso degli anni, la regista ha tentato anche di immaginare il contenuto della sua mente, tra ricordi del passato e immagini misteriose ispirate al giorno in cui iniziò a urlare la parola imperatore in continuazione. Lo scopo di rendere poetico, visivamente e narrativamente, il cervello di un uomo che non può più comunicare, è raggiunto. Si tratta di un’opera emozionante e stordente: pur mancando la concretezza di cosa significhi essere afasici, perché è impossibile, dà a ogni spettatore la descrizione indimenticabile ed elegiaca di un male altamente debilitante.

Il senso della vista è al centro del documentario Spots of Light di Adam Weingrod. Si racconta la vicenda di un uomo israeliano che perde la vista al fronte, conosce e sposa una donna senza averla mai potuta guardare. Anni dopo, recupera la vista con un’operazione: vede per la prima volta moglie e figli ma poi, pian piano, perde la vista di nuovo. Questa esperienza di vista che va e viene è resa faticosa anche gli occhi dello spettatore con immagini incomplete o che compaiono e scompaiono. Generalmente mai usato in questo tipo di opere, viene anche implementato un meccanismo per cui una delle due lenti non mostra nulla se non nero: vedere immagini tridimensionali attraverso un solo occhio ha un effetto fastidioso che rende molto faticoso guardarsi attorno (da mal di testa), ma punta a restituire la sensazione del trauma di perdere la vista, la fatica di doversi riabituare a farlo, per poi tornare nuovamente indietro. Il documentario, narrato dal protagonista, non avrebbe potuto avere lo stesso effetto potente, senza l’esperienza in realtà virtuale.

Questo tipo di realizzazione ha una durata che può variare, a seconda anche del grado di interattività possibile, dai 5 ai 60 minuti. La loro distribuzione avviene soprattutto attraverso le piattaforme di videogiochi /contenuti virtuali come Steam. In alcuni siti, come presso il Museo del Cinema di Torino, esistono postazioni virtuali per la proiezione di questi contenuti che varia periodicamente.

È possibile che in futuro mezzi di questo genere permettano di entrare meglio nei panni di coloro che oggi ci sembrano completamente diversi da noi e perciò difficili da capire? I film di Venice Immersive sembrano suggerire che possa essere così.

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Venice Impressive: la sezione in realtà virtuale della Biennale ultima modifica: 2023-09-22T16:41:23+00:00 da Claudio Cinus

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