Immaginate una persona con disabilità. Come la disegnereste? Provate a farlo…”
“Quante persone con disabilità conosci? Di quante sai dire il nome?”
Due domande raccolte in due contesti diversi, spunti per riflettere sul nostro pensare e parlare di disabilità.
La prima è stata formulata nell’ambito del seminario promosso nel febbraio scorso dal Redattore Sociale e dalla rivista Superabile-INAIL sul tema dell’informazione consapevole a proposito di disabilità. Con un titolo molto significativo, Né poveretti né speciali, il seminario era rivolto in particolare ai giornalisti, perché un’informazione veramente rispettosa dovrebbe imparare a evitare gli estremi del pietismo commiserativo o dell’eroismo celebrativo che invece appaiono predominanti nel racconto della disabilità. I motivi sono chiari e “spietati”: perché una notizia arrivi al grande pubblico deve emergere nella spettacolarità, sia essa positiva o negativa. Con il risultato però di falsare la vita concreta delle persone, di appiattire, di trattare con superficialità alcuni temi che invece hanno bisogno di una conoscenza più approfondita. Uno dei genitori relatori, il giornalista Nicoletti, sottolineava la mancanza di rappresentanti delle grandi testate al seminario e in effetti la maggior parte dell’uditorio sembrava composta soprattutto da addetti ai lavori. Altri, tra relatori e uditori, constatavano quanto poco rimbalzino notizie da fonti davvero autorevoli – come è il Redattore sociale ad esempio – rispetto alla quantità di notizie circolanti; o di come le associazioni che rappresentano alcune categorie di persone con disabilità, venissero contattate per presentare “un caso”. Certo non è facile interrompere alcuni circoli viziosi propri dell’informazione ed estendibili a tante altre tipologie di notizie. È necessario, si diceva al seminario, cambiare la retorica sulla disabilità: quella retorica per cui un genitore – ci dicono Gianluca Nicoletti, padre di Tommy, e Gabriella La Rovere, madre di Benedetta, entrambi molto diversamente autistici – rischia di essere incasellato, suo malgrado, eroe in quella situazione, capace di andare avanti nonostante tutto… e, alla fine dei conti però, da solo. Come sola disegniamo facilmente quella persona con disabilità, in sedia a rotelle, apparentemente normale, ma difficilmente coinvolta in una relazione. In una retorica che ci mette al riparo da chi vive la condizione di disabilità.
La seconda è la domanda di un test ideato da un sacerdote milanese, Stefano Buttinoni (p. 13). Incaricato dal suo Vescovo ad occuparsi proprio di questa tematica, lui – da fratello – ha pensato di sondare il terreno attraverso un questionario, poco scientifico forse, ma capace di sollecitare il confronto e far emergere in che modo ci confrontiamo con la disabilità. Partendo da un elemento di conoscenza molto concreto: quante persone con disabilità conosci? Di quante sai il nome?
So di rivolgermi ad un gruppo di lettori, attraverso queste pagine, che di nomi di persone con disabilità ne riempirebbero fogli, anche mettendo il proprio nome tra questi. Credo che quegli stessi lettori sappiano non accontentarsi delle vicende, dei termini, dei modi molte volte semplicistici spesso rilanciati dalla stampa e vissuti nella società; so anche che la maggior parte di loro cerca di farsi vicina per creare una relazione solidale e realmente tra pari laddove la parità non è così scontata.
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Ma quella retorica sulla disabilità emerge spesso senza neanche che ce se ne renda conto, come nelle affermazioni contenute nei Rapporti di Autovalutazione di alcuni, per fortuna pochi, prestigiosi licei italiani, secondo cui questi sembrano potersi far vanto del non avere, tra i loro alunni, ragazzi con disabilità o in condizioni socio-economiche svantaggiate, per una didattica che scorre così facilitata e senza grossi impacci. Forse davvero niente di nuovo… ma bisogna prendere atto – ed educare i più giovani (a pag. 11, 15 e 17 – n. 141, 1/2018 – alcune iniziative in tal senso) – che imparare a mediare con le criticità della vita, di cui alcune persone sono maggiormente esperte, non può che giovare ai singoli e alla società in generale. Anche non accontentandosi delle superficiali notizie, o innalzando muri più o meno invisibili per tenersene lontani. Nessun essere umano può prescindere dalla propria fragilità e considerare marginale ogni altra possibilità di umanità nella quale, per una parte della vita nella migliore delle ipotesi, non si riconosce. Trovandogli solo definizioni apposite, circoscrivendo i termini e i luoghi che la possono contenere, nel tentativo – più o meno consapevole – di non lasciarsene contaminare.
Cristina Tersigni, 2018
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.141, 2018