Vale la pena ascoltare Pierangelo Sequeri. Perché è autore di canti religiosi tra i più belli e profondi come Symbolum ’77 (Tu sei la mia vita, altro io non ho …), Symbolum ’80 (Oltre la memoria del tempo che ho vissuto …) , Madre io vorrei, e altri.
Perché era molto vicino all’arcivescovo di Milano, Martini, per molti anni vicino alle comunità di Fede e Luce.
Perché è preside del Pontificio Istituto di Studi su Matrimonio e Famiglia.

Sequeri dice le ragioni profonde e di solito ignorate, della nostra reazione ai migranti e di come siano legate ai modi di essere della nostra società e anche della Chiesa. Esce perciò dalla solita contrapposizione tra “Non li vogliamo” e “Abbiamo il dovere morale di accoglierli”.
Quanto segue è un estratto di un incontro in una parrocchia romana lo scorso febbraio.

Qualcosa in più del non morire

Il punto di partenza è un’idea universale: l’essere umano cerca di stabilire un rapporto favorevole col mondo. Un modo è il viaggio, che arricchisce la vita di chi viaggia, di quelli con cui entra in relazione e del suo ambiente quando ritorna.

Il viaggio è una scelta. L’emigrazione è un viaggio forzato, quando l’ambiente in cui la persona vive non permette più di trovare un rapporto favorevole col mondo. Perciò tu parti perché sai che lì non hai possibilità di sopravvivere alla tua povertà e inoltre quel luogo non ha la possibilità di essere arricchito. Non è detto che questo sia per sempre, ma ora lì si è al limite della sopravvivenza. Non importa se per guerra, carestia o povertà: la povertà è pericolosa come la guerra per le creature che vi nascono. E dovremmo anche pensare che cosa ha reso invivibile quella madre terra: forse la siccità, forse la prepotenza dei vicini, forse il saccheggio di generazioni che sono venute a prendere e non hanno dato nulla.

Se noi accettiamo il migrante perseguitato (e già questo tra noi è dubbio), ma non se viene in cerca di una vita migliore per sé e i suoi figli, contraddiciamo un principio in cui crediamo: che è giusto e buono lavorare per dare ai figli una vita migliore, ben oltre la sopravvivenza. Certo, prima rimane la tutela della vita. Ma come possiamo essere tanto cinici da condannare negli altri quello che riteniamo bene per noi? Cioè desiderare per sé e i figli qualcosa in più del non morire.

Il pane con disprezzo

Ora guardiamo un altro lato della questione.
Oggi siamo in un pianeta dove ogni pezzetto, ogni pianta, ogni sorgente è di qualcuno. Fino a poche generazioni fa uno poteva coltivare un pezzetto, farsi una casetta per vivere. Oggi, anche se vuoi far sacrifici con la tua famiglia, arriva uno che dice: devi tot al comune; tot al proprietario; qui anche se è incolto non si può coltivare… E’ così per il piccolo comune, la città, la regione, il mondo!
Ormai non c’è nulla che non si possa vendere e comprare, nulla vincolato al lavoro dell’uomo e non a un’autorizzazione. Le regole e la tecnologia ci hanno liberato da molte preoccupazioni, però fissano tutte le cose che possono essere fatte o non fatte. Stiamo perdendo il senso del modo in cui le risorse diventano umane. Se ti butto il pane con disprezzo o te lo do con gentilezza ha la stessa capacità nutritiva, ma nel primo caso apro una voragine nella tua vita.

Si dice: qui il lavoro non c’è! Ma il lavoro è l’uomo. Sì, però qua tutto è già venduto, misurato, comprato.
Diritti all’istruzione? Alle cure? Sì, ma sono finiti i soldi.

Familiarità e cittadinanza

Oggi vanno in corto circuito le due dimensioni alle quali siamo abituati: la familiarità (legame con parenti, vicini, amici) nella quale ti senti protetto e la “cittadinanza”, la più ampia comunità alla quale sentiamo di appartenere, che oggi sembra fatta di carte. Perciò l’accoglienza nella cittadinanza ci sembra una questione di carte bollate: sopportiamo male una cittadinanza senza riferimenti umani. E, reazione naturale, l’accogliere nella sfera familiare ci mette in imbarazzo perché contiene una storia, una tradizione e non ammette l’invasione di estranei.

Nella nostra cultura antica, anche cristiana, c’era una figura formalizzata che aveva un ruolo sia istituzionale che familiare, intermedia fra queste due sfere: l’ospite (era un termine preciso) di cui si prendevano cura insieme, la “famiglia” e la “città”.
Quando lo straniero arrivava era la città stessa a proporlo alla famiglia che l’avrebbe accolto e la famiglia sapeva che questa accoglienza era tutelata dallo “stato”, che era la “cittadinanza”. Senza questa tutela, timori e incertezze non sono fisime della gente.

Troviamo percorsi giusti

L’ospite porta in sé questo problema, del non sapere bene chi è. Questo diventa anche il problema di chi lo riceve, e può essere risolto solo se la famiglia e la politica lo riconoscono e creano un percorso sostenuto da ambedue, nella quale il problema si può risolvere. Sarebbe troppo lungo qui ragionare su come dovrebbe essere questo percorso: certo comprende l’aiuto a impadronirsi della lingua. La possibilità di comunicare alleggerisce l’imbarazzo dell’ospite e l’ansia di chi ospita. Gli esseri umani parlandosi capiscono anche tante cose che non sono dette.

Insomma si tratta di riconoscere l’emigrazione come un istituto sociale al fianco della famiglia e della cittadinanza. Si tratta di riconoscere e attuare l’adozione del migrante da parte di questa terra, visto che la sua “mamma” terra non può più sostenerlo. Se invece vediamo l’emigrazione come contrattazione sulla cittadinanza, come lotta per gli “spazi”, non andremo lontano.

Dovendo fronteggiare, con i nostri valori cristiani di accoglienza, uno spostamento forzato, subìto prima di tutto da “loro”, non possiamo semplicemente tradurlo in un inserimento forzato. Dobbiamo dare una testimonianza di accoglienza che incoraggi la creazione di percorsi intermedi verso questa “adozione”, che non sono certo il tenere questi ragazzi 3, 6 mesi, un anno, senza far nulla, senza un minimo di soddisfazione.

Noi misuriamo le reazioni dell’essere umano sui limiti della sopravvivenza. E’ la nostra società materialistica che ci porta a questo: ci pensiamo come insetti ingegnosi che cercano di procurarsi il cibo migliore. Ma noi non siamo così: noi viviamo di conversazioni, di sogni, di sguardi…

Rischiamo di non sapere più di che vive o muore, si commuove o si arrabbia, un essere umano. Che non è tanto il pane, quanto il modo in cui glielo diamo. Noi siamo sensibili alla forma con cui abitiamo la terra, ci nutriamo, facciamo figli… al “Modo in cui…”. Questo è universale. L’essere umano si riconosce in questo. Ed è profondamente umano il desiderio di essere utile alla comunità, di avere colloquio con le persone che vi abitano, perciò la soddisfazione di imparare la lingua per essere compreso e comprendere.

Come siamo noi

Il ragionamento si conclude ora su noi stessi.
Stiamo costruendo un sistema sociale in cui andiamo perdendo le risorse umane, l’incentivo a coltivare le qualità umane del rapporto, il senso della comunità. Da un paio di decenni cresce l’idea che una società è composta di individui che hanno il diritto di assicurarsi i vantaggi migliori, e la società è organizzata in modo da darglieli. Questa società non ha spazio non solo per ospitare i migranti, ma neanche per i legami sociali, i legami familiari, che spesso diventano conflittuali. Perdiamo l’idea che il nostro bene non dipende tanto dalla quota di soldi, quanto dalla quota di affezioni che sappiamo sviluppare per la comunità a cui apparteniamo e che sono una risorsa per tutti.

Anche la Chiesa corre un rischio in questo. Perché tende a rimanere appoggiata su un modello di comunità cristiana dove l’ospite non esiste.

L’ospitalità è una categoria che da tempo ci sfugge. Nelle prediche la “diciamo”, ma non sappiamo come farla. Molte parrocchie sono state anche generose nelle emergenze, ma ci manca un’attrezzatura culturale, una “forma di chiesa”. Non siamo abituati a una Chiesa che è un po’ di tutti e un po’ di tutto.

Il Vangelo ci mostra il modello più originario di Chiesa. E’ costituito da: Gesù, i discepoli, la folla. I tre elementi sono essenziali. Se manca Gesù, la Chiesa si riduce ad alcuni che comandano e il popolo che obbedisce: allora è finita. Se togli i discepoli che insegnino quel che Gesù ha detto, avrai una folla di fanatici che crede di vedere Gesù dovunque: mancano i mediatori e ognuno può dire “Gesù sono io”. Se manca la folla, la Chiesa diventa una setta: fondatore più gruppo di fedelissimi che sa tutto.

Nella folla c’è di tutto: l’eretico (il Samaritano), chi va al tempio ogni giorno, il pubblicano (lavora con i soldi), la prostituta, la straniera Sirofenicia, i malati… A questa folla di ospiti, Gesù parla con le parabole: la folla lo capisce e lo segue.
La Chiesa ha perso l’abitudine dell’ospitalità, perché in tutte le cose che fa ci sono solo i suoi. Deve riprendere confidenza con il genio cristiano dell’ospitalità, pur senza confondere i piani (folla, discepoli, Gesù), ognuno con la sua parte.

a cura di Sergio Sciascia, 2017

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.138

Insolito ragionamento sul migrante ultima modifica: 2017-06-28T11:35:23+00:00 da Sergio Sciascia

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