Essere padre di un figlio disabile: se si guarda dall’esterno sembra una situazione anomala, mentre se la si vive senza rifiutarla o ritenerla punitiva finisce per non essere troppo diversa da una delle tante in cui ci si può trovare nella gestione di una famiglia.

Non vorrei essere frainteso: non è situazione piacevole, specie nei momenti iniziali, ma va affrontata al meglio per il bene di tutti. Nel caso di Alberto la questione è stata facilitata dalla doppia condizione di primo figlio, rimasto unico, e di disabilità sin dalla nascita: la presa di coscienza della situazione è stata progressiva con in sottofondo la speranza di poter superare, o almeno migliorare, la disabilità stessa e di potersi dedicare solo a lui.

Di contro, mancavano i termini di paragone e molti sono stati i momenti duri: accorgersi che non si comportava come gli altri bambini e sentire, eravamo nei primi anni ’70, le ipotesi e le diagnosi più disparate e strampalate poteva condurre alla disperazione ed al rifiuto, piuttosto che alla ricerca di una possibile via d’uscita. Tra l’altro i tempi non erano quelli attuali: i disabili venivano guardati con compatimento, o addirittura con diffidenza, venivano considerati incapaci ed irrecuperabili e, spesso, tenuti a distanza quasi la loro condizione fosse contagiosa: la famiglia era l’unico punto di riferimento con il risultato che, quasi sempre, il disabile viveva parcheggiato in casa senza rapporti col mondo che lo circondava.

Non è stato questo il caso di Alberto che ha sempre partecipato a tutte le normali attività sia nella vita quotidiana, che nelle occasioni di incontro con amici, parenti e conoscenti. Di conseguenza, nei limiti delle sue condizioni, ha finito per condurre una vita “normale” che gli ha permesso di acquisire tutte le nozioni che erano alla sua portata sviluppando un atteggiamento molto partecipativo e, nel contempo, molto deciso e volitivo sia nei riguardi dell’ambiente che delle persone: non parla ma capisce (se lo giudica conveniente) e, soprattutto, si fa capire con lo sguardo e l’atteggiamento.

E la famiglia? Anch’essa si è adattata; la speranza non ci ha mai abbandonato ed il fatto che Alberto stia bene, non mostri di soffrire, sia allegro e socievole, ripaga ampiamente dei sacrifici che vengono fatti: tutto sommato la situazione non pesa più del dovuto.

Un particolare rapporto di complicità si è stabilito con il padre non sempre disposto, come la madre, a prendere le sue difese… ed Alberto si è prontamente adeguato: indifferenza se non si sente colpevole, moine accattivanti nel caso opposto. Sempre pronto a ripagare con sorrisi le carezze ed i gesti affettuosi nei suoi riguardi, a far notare che il padre non è al suo posto in certe situazioni, a richiedere conforto quando sta male e, non potendo esprimersi, soffre in silenzio.

Vi sono stati anche momenti tristi e preoccupanti: ricordo le nottate trascorse in trepidante attesa degli sviluppi della situazione allietate dal suo sguardo riconoscente e dai suoi sorrisi non appena superato il momento critico.

Oggi, pur essendo mutato in meglio l’atteggiamento nei confronti dei disabili, non sempre gli stessi, spesso ritenuti incapaci, sono inseriti in una vita di relazione che permetta loro di acquisire le poche o molte nozioni alla loro portata. Mi permetto di insistere sulla opportunità di non sottovalutare le capacità di ognuno, consentendo loro di formarsi una propria personalità: sono sicuro che i risultati, anche modesti, ripagano ampiamente dei sacrifici fatti.

Giacomo Romanini, 2014

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.127

Essere padre di un figlio disabile ultima modifica: 2014-09-29T09:59:49+00:00 da Redazione

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