È ormai un convincimento assodato, in linea di principio, che per la Chiesa le persone disabili non possono essere un peso o un ulteriore problema, ma i figli prediletti che le indicano, con la fragilità della loro esistenza, che Essa non ha altra via da percorrere che quella della croce e della povertà, nella prospettiva della risurrezione, non come corpo rianimato, bensì come pienezza di vita.

Da circa 15 anni nella parrocchia di Santa Maria di Gesù a Mazara del Vallo si colloca la comunità di Fede e Luce “Nuovo Germoglio, il cui inserimento, a giudizio dell’attuale parroco, è un po’ plurimo: non si è ancora arrivati, per gli operatori pastorali, ad un vero cambiamento di mentalità, nel senso di cogliere il gruppo come un dono, ma non vi sono problemi di indifferenza, incomprensione, ostilità; c’è grande rispetto e attenzione. Si può dire che tutti coloro che svolgono un servizio pastorale vivono accanto ai suoi componenti, ma non vivono con loro e, meno ancora, per loro.

Nella presa di coscienza dei membri attivi della parrocchia non si è arrivati alla dimensione della condivisione, non solo delle strutture e delle attività, ma anche della vita quotidiana; la presenza di Fede e Luce in parrocchia fa piacere che ci sia, ma non è ancora maturata la coscienza ecclesiale di chiedersi cosa si può fare perché questa presenza sia segno profetico di una comunità missionaria nel territorio.
I componenti della comunità “Nuovo Germoglio” si sono inseriti come un qualsiasi gruppo ecclesiale, mantenendo la propria identità e le proprie modalità di incontro, secondo la spiritualità e la metodologia di Fede e Luce e partecipando alle varie celebrazioni della parrocchia e a tutta la vita pastorale.

La scelta condivisa di far parte a pieno titolo di una parrocchia è stata anche motivata dal desiderio di voler condividere con altri il “dono” che i “ragazzi” rappresentano. Tra i membri della comunità vi sono famiglie che pur non risiedendo nel territorio parrocchiale partecipano in toto alla vita della parrocchia; altre, invece, si rendono presenti solo in occasioni particolari, quali l’incontro mensile del gruppo, o i vari appuntamenti che si organizzano a vario titolo – compleanni, feste o altro – ma sempre e solo in riferimento al gruppo di Fede e Luce, ponendosi ai margini della comunità parrocchiale.

Per tutti loro, i ragazzi, le loro famiglie e i loro amici, circa 30 persone, la struttura parrocchiale è diventata, quindi, un luogo molto familiare; non di rado, è un punto di riferimento per incontri con le altre due comunità “Fede e Luce” presenti in Diocesi e per tutti i loro momenti ricreativi.
Nonostante la presenza silenziosa ma partecipativa, sia il parroco che i responsabili del gruppo, hanno l’impressione di non aver fatto abbastanza per trasmettere la “profezia” di Fede e Luce.

In teoria non ci sono veri e propri ostacoli che impediscono l’integrazione e la partecipazione alla vita pastorale ma, di fatto, è ancora lungo il cammino da percorrere per poter affermare e riconoscere come dono il “ragazzo” e quello che può rappresentare nella vita della parrocchia.

Nel descrivere il tipo di interazione tra gruppo e parrocchia, Alda Mangiapane, responsabile della comunità, constata: «Nell’arco del tempo il gruppo è cresciuto numericamente ma pochissime persone della parrocchia ne sono entrate a far parte e ne hanno condiviso principi ed attività… e comunque si è trattato solo di pochi amici… non c’è stato infatti nessun “ragazzo” della parrocchia che è entrato a far parte di Fede e Luce. (…)
Come comunità, si è avuta l’impressione di non aver fatto abbastanza per farsi notare. Ci si è posti tanti interrogativi ma finora non si è riusciti a dare delle risposte su come poter richiamare l’attenzione di altri e coinvolgerli nell’accoglienza dei ragazzi disabili per vivere insieme la gioia dell’amicizia tra noi e con Gesù
».

Ci si chiede: cosa manca? Quale tipo di accoglienza deve offrire la parrocchia ad una famiglia con una persona disabile o ad un gruppo come il “Nuovo Germoglio”? Come rendere la parrocchia “luogo” dove la comunità cristiana cammina insieme alla “diversità” e le tende le braccia? Come trovare il giusto linguaggio per far maturare tutti verso una riconosciuta ed esplicita condivisione? Come vincere ignoranza, paura, egoismo?

Per rispondere, almeno, ad alcuni di questi quesiti senza esasperare le difficoltà e senza ignorarle, credo sia opportuno fare tre premesse, che non vanno mai date per scontate, perché quando sono troppo sottointese, finiscono per essere dimenticate:

  • L’uomo, ogni uomo, nella sua originalità e nella sua libertà, ma anche nella sua umanità fragile è, da una parte la “via” per una vera comprensione del Vangelo, dall’altra il “luogo” originario ed originante da cui il Vangelo ci viene incontro, inoltre è anche “l’orizzonte” verso cui il Vangelo ci orienta. Le immagini di “via”, “luogo” ed “orizzonte” permettono di cogliere non solo l’aspetto della ricerca dell’uomo ma anche il movimento inverso, l’aspetto dell’uomo che è cercato dalla Parola; dall’accoglienza della Parola che ti cerca e ti provoca alla fedeltà, alla ricerca della Parola che ti accoglie con le tue domande e con le tue povertà. Questo percorso che coinvolge Dio e l’uomo, vale per ogni uomo, qualunque sia la sua situazione personale.
  • Una comunità parrocchiale che impara a dare spazio nella propria vita di comunità ad un gruppo come “Nuovo Germoglio”, in qualche modo investe nel campo educativo, perché educa, non solo i ragazzi e i giovani, ma tutti, a riconoscere i veri valori e a dare importanza all’essenziale, a valutare le persone per quello che sono dentro e non per quello che appaiono o per la loro efficienza, a scoprire la gratuità dell’amicizia e della solidarietà, a trovare ragioni profonde di unione, di gioia, di amore.
  • Accogliere qualcuno significa fargli scoprire e sperimentare che Lui è un valore; questa comunicazione avviene attraverso tutti i gesti quotidiani del corpo e attraverso tutte quelle scelte che pongono la comunione come obiettivo insostituibile. La comunione è una realtà molto diversa dalla generosità o dalla condivisione; nella comunione c’è una reciprocità di relazione dentro il grembo dell’amore; non a caso il termine “comunione” è la categoria teologica che descrive contemporaneamente il mistero di Dio e il mistero della Chiesa. Comunione non è né fusione, né controllo, né potere, né possesso; è una relazione di fiducia reciproca, basata non solo sui valori, ma anche sulle difficoltà; la vita di comunione richiede una comunità parrocchiale calda, affettuosa, mite, cioè con i piedi per terra, realista e pacata, consapevole che rispetto sia alla missione che è chiamata a svolgere, sia alle necessità che le si presentano riesce ad offrire veramente poco; nello stesso tempo la comunione fa della comunità un luogo umano, dove circola vita.

Il modello che più di ogni altro aiuta a capire cosa si intende per accoglienza nella Chiesa lo si può ricavare da quell’ambiente da cui tutti proveniamo e che risulta essere l’ambito educativo per eccellenza: la famiglia.

Adesso, ribaltiamo i termini, parliamo della parrocchia a modello famiglia, cioè come luogo dove ci si educa e ci si esercita nell’arte della comunione per vivere quello che siamo, comunità.

Il non conoscersi, il non essere spontanei, la non sincerità, l’estraneità ai progetti comuni, non permettono di entrare nella logica della famiglia e di far nascere la familiarità; inoltre bisogna tenere presente che per esserci familiarità è necessario che tutti i soggetti chiamati in causa lo vogliano, perché è una dinamica di relazione che implica la corresponsabilità e la condivisione; quando ci si sente ospiti o estranei alle idee o ai progetti, non scatta la familiarità.

La comunità parrocchiale presa in esame, un po’ per storia e un po’ per struttura, fa fatica a pensarsi, in concreto, nella logica della famiglia, dove è possibile sperimentare in modo semplice e feriale quell’affetto umano che dà volto e sapore alla comunione e che rende comunità.

L’accoglienza è condizione indispensabile perché si trovi lo spazio ed il tempo, nella fiducia, per esprimere il disagio e lasciarsi accompagnare nella scoperta della domanda, che porta alla scelta di un progetto educativo.
Solo quando ci si sente accolti, voluti bene, stimati, si è in grado di esprimere il disagio per chiedere implicitamente o esplicitamente aiuto a guardare oltre l’immediato, verso l’orizzonte a cui apre Cristo, Speranza cristiana.

Accogliere con simpatia e fiducia nella vita della comunità, significa aiutare a riconoscersi più cordialmente nella continuità della tradizione, a riscoprire la dimensione comunitaria della fede, condivisa e vissuta con i fratelli, a maturare un più profondo senso di Chiesa.
L’accoglienza aiuta a superare i limiti di un soggettivismo superficiale; a condividere in un fruttuoso scambio le esperienze e gli impegni; ad aprirsi al riconoscimento del ruolo degli altri nella propria vita.
Tutto questo resta ancora come un obiettivo da far maturare in modo diffuso e da realizzare nell’armonia della vita pastorale.

La fatica di continuare ad accogliere, servire e lasciarsi servire dai fragili e dai deboli permette alla Chiesa di mostrare il suo vero volto, comunità di fratelli, radunata nel nome del Signore, sotto l’influsso dello Spirito.

Questa consapevolezza pone all’attenzione di tutti la sfida della semplicità, che non vuol dire banalità o riduzionismo. La sfida della semplicità come ricerca semplice della via da percorrere insieme, andando alla sostanza, all’anima, alla bellezza della fede, eliminando gli orpelli e le caricature, che rendono meno credibile la testimonianza, consapevoli che è necessario entrare in sintonia con tutte le persone, tenendo conto che a volte, nell’annuncio del Vangelo, la via affettiva è più percorribile e precede la via intellettiva.

Nel primo numero di “Ombre e Luci” del 1994, sul tema “L’educazione alla fede del disabile nella comunità cristiana”, ci si chiede: cosa può fare la comunità parrocchiale per le persone con handicap? Tra le varie cose che vengono indicate, una mi sembra possa essere la giusta conclusione: “educarsi all’accettazione della diversità, all’accoglienza e alla promozione dei doni di ciascuno”.

Don Giuseppe Alcamo, 2013

Estratto dalla relazione al convegno “Il dono dei disabili. Le membra del corpo che sembrano più deboli sono le più necessarie” promosso dall’Ufficio Catechistico Nazionale, Settore Catechesi dei Disabili, Roma 21/3/2009

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.121

Per una vita di comunione ultima modifica: 2013-03-10T15:15:04+00:00 da Don Giuseppe Alcamo

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