Da dove nasce il suo impegno?
La fede cristiana è la fonte del mio impegno nel servizio pubblico come alto funzionario e nella Chiesa come diacono. Essere cittadino del cielo è legato al fatto di essere un cittadino impegnato sulla terra. Vivere per l’incontro con l’altro, e del tutt’Altro, vuol dire esporsi al cambiamento e a liberarsi delle rappresentazioni, secondo le norme che impediscono alla persona diversa di esistere così com’è (questo vale per l’handicap come per ogni altra minorazione). Un giorno in cui mi trovavo a Lourdes, seduto sulla mia carrozzina elettrica, nella basilica San Pio X, un organizzatore è venuto a dirmi che avevo disturbato la processione! Ho risposto: “ Ma io faccio parte della processione.” Bisogna saper privilegiare l’ordine dell’amore all’amore dell’ordine. Altrimenti siamo persi! E’ inoltre importante sapersi liberare da un rapporto malsano, triste, nei confronti della sofferenza. E’ l’amore che ci salva, vissuto anche nella sofferenza e non il contrario.

Dio non è un Nerone che dall’alto delle nubi ci manda le disgrazie. Egli vuole la nostra felicità. Certamente la Chiesa è cambiata su questo punto. Ma ancora troppo spesso si fa “per” i malati e non “con” i malati. Per questo ho accettato l’invito ad un pellegrinaggio del Rosario a condizione di poter fare io l’omelia, perché non deve essere sempre chi sta bene ad insegnare ai malati. Non lo faccio con spirito di rivendicazione, ma di pacificazione. Sarò all’altare e questo è un segno molto più forte di una testimonianza.

In che modo la Chiesa potrebbe “chiamare” di più le persone disabili al servizio?
Le persone con handicap sono, tanto quanto le persone “normali”, chiamate ai vari sacramenti e nei ministeri. Alcune persone, al momento del mio diaconato, hanno obiettato che, essendo tetraplegico, non potevo combinare nulla “senza gambe e senza braccia”, sottintendendo: sostenere un bambino per il battesimo, portare il calice all’altare… Il vescovo d’Amiens, in nome del sacramento del mio matrimonio, ha autorizzato mia moglie a “prestarmi le sue mani” per realizzare i gesti che io non posso fare, per esempio durante un battesimo. Jacques Lebreton, che faceva parte della fraternità diaconale, che viveva senza occhi né mani, diceva “il mio diaconato è questo!” cioè essere e non fare.

Abbiamo forse bisogno di persone che pregano per riconoscere che la grazia non si esprime per forza nell’apparenza. La forza della preghiera non è riservata ad un’élite, ma affidata ai più poveri.

Durante la notte, stesi sui nostri letti, non potendo alzarci, possiamo creare una specie di “cappella interiore” silenziosa, nei nostri corpi feriti. Così si possono vivere e testimoniare grazie particolari quando si è malati o handicappati.

Quali sono queste grazie particolari?
I santi e i profeti vanno nel deserto per sentire meglio la Parola di Dio. Essere malato è raggiungere questo deserto. Non si tratta di una superiorità perché chiunque vi è chiamato, semplicemente una facilitazione, anche se in certi giorni se ne farebbe a meno… Ho conosciuto momenti difficili e di rivolta, in cui non capivo, ma mi sono sempre rivolto a Dio come ad un Padre.

La sofferenza non insegna nulla. E’ viverla con gli altri che insegna. Si scopre allora la realtà di chi ti circonda, la verità o la fuga, nello sguardo dell’altro. Quando ti metti davanti a molti, questo è un segno rivelatore di amore. Ma vorrei parlare, soprattutto, della bellezza della vita, del nostro passaggio effimero su questa terra, dove la qualità dei giorni è più importante della quantità. Sono consapevole che il tempo è contato, sarebbe un errore non viverlo a fondo.

Che cosa le ha donato questo gusto per la vita?
Molti avvenimenti o persone. La speranza è contagiosa e quando accettate di stare vicino a certe persone, ve ne riempite il cuore. Penso ai miei genitori che hanno avuto tre figli con handicap, ad amici credenti o non credenti, e l’Eucarestia come persona fondante e amore, albero maestro nella tempesta, dono fra i doni.

Il paradosso è che io, che volevo navigare sul mare, sono approdato sulla mia sedia a rotelle. E’ forse per questo che non ho l’animo del marinaio? Non credo proprio. Ma io sono sempre alla ricerca del mio porto d’attracco — nessuno può dire di aver trovato Dio — ed è questa ricerca che mi rende felice. Per me non è teoria, ma vita vissuta, sono tracheotomizzato da sette anni, ho perso l’uso delle mani da venti anni e delle gambe da trenta. Nell’handicap, nella malattia, credo che non bisogna cercare il perché è successo, ma come vivere. I “perché” esauriscono, i “come” costruiscono.

Si trova la propria vocazione ascoltando ciò di cui gli altri hanno bisogno per essere felici. Questa non è per forza una questione di ministero, la vocazione può essere semplicemente uno stato di vita appagata.

a cura di Florence Chatel, 2013
da Ombres et Lumière n°189

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.121

Jean-Christophe Parisot, un cercatore di Dio ultima modifica: 2013-03-10T15:20:04+00:00 da Florence Chatel

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