Inutile nascondercelo, da quando l’età e la malattia hanno quasi annullato la vita pubblica del cardinale Martini, noi di Fede e Luce ci sentiamo un po’ orfani. Lassù, ai piani alti di Santa Romana Chiesa, avevamo qualcuno. Non per raccomandarci, perché grazie a Dio – e anche a Jean e Marie-Helene che hanno impresso all’Arche e a Fede e Luce i caratteri della povertà e dell’umiltà – non ne abbiamo bisogno. Ma il “nostro” Cardinale era la fonte della speranza in un rinnovamento della Chiesa, ci serviva a respingere la tentazione di arrabbiarci troppo con queste gerarchie che spesso troviamo deludenti. Perciò ora siamo alla continua ricerca di incoraggiamenti. E uno lo abbiamo trovato.
È stato l’invito rivolto dal Papa a cinque filosofi non credenti a partecipare all’incontro di Assisi insieme ai testimoni delle grandi religioni. Perché ha fatto tanto rumore questo invito? Potremmo rispondere semplicemente: perché non ce lo aspettavamo. Ma sarebbe un errore, perché anzi è stato proprio Benedetto XVI a chiamare accanto a sé a Roma il vero artefice del dialogo con i non credenti: monsignor Ravasi, amico, allievo e collaboratore del cardinale Martini!
No, forse la risposta è un’altra. Sarebbe stato normale che ad un incontro fra leader religiosi non partecipassero gli atei. Il gesto di Ratzinger-Ravasi è allora un vero incoraggiamento per noi perché è un gesto di ribellione a quella che Jean Vanier chiama “tirannia della normalità”. Quante volte le famiglie di Fede e Luce hanno sperimentato la durezza dispotica delle convenzioni sociali, e com’è difficile portare a Messa o in metropolitana o a fare shopping un figlio che parla a voce troppo alta o fa movimenti inconsulti! La gente normale ti guarda male e se non hai un po’ di coraggio ti costringe a rientrare nei ranghi, cioè a tornare a casa. Forse non è un caso che Jean parli di “tirannia della normalità” dialogando proprio con uno dei 5 filosofi invitati ad Assisi: Julia Kristeva, bulgara di nascita, francese d’adozione, psicanalista, semiologa, madre di David, un ragazzo con problemi psichici.
Lei e Jean hanno pubblicato insieme un epistolario – Il loro sguardo buca le nostre ombre. Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso, editore Donzelli – non certo un carteggio per scambiarsi complimenti perché anzi a un certo punto, di fronte all’entusiasmo con cui Jean affronta le difficoltà nel rapporto con i suoi amici all’Arche e la gestione del foyer, la Kristeva sbotta: “Deve stare fuori dal mondo per esultare a quel modo!”.
Sboccia attraverso le lettere una bellissima amicizia fra due persone tanto diverse per formazione ed esperienze, entrambe, però, con una vita fondata sull’ascolto dell’altro. Ribellarsi alla normalità significa rivolgersi all’individuo, scrive la Kristeva, e nel bellissimo discorso di Assisi, il concetto torna quando la filosofa chiede a tutti (ma in particolare ai giovani, mi sembra) di non rassegnarsi a diventare “elementi di linguaggio nell’iperconnessione accelerata”.
Non spaventatevi, è uno dei pochi passaggi in cui la Kristeva “parla difficile”! Ma il riferimento è chiaro ed è ad esempio ai social network e in generale allo sviluppo dei mezzi di comunicazione individuale. Se li utilizzi senza mai porti il problema dell’interlocutore, di chi hai dall’altra parte, della sua “singolarità”, stai subendo lo schema sociale dell’essere sempre in connessione con tutti ma alla fine senza sapere con chi. E questo vale in qualche modo anche per l’handicap.
La Kristeva è stata nel 2005 una delle animatrici degli Stati generali della disabilità in Francia. “Da allora abbiamo fatto molti passi avanti – dice – ma restano due terreni scoperti: il sostegno individuale alle persone ferite e la cura della loro vita affettiva”. Se in questi decenni abbiamo scoperto la necessità di prenderci cura della “categoria” dei disabili, la sfida del futuro è di passare dal plurale al singolare.
E dove li troviamo i soldi, direte voi, proprio in questo momentaccio? Perché è chiaro che l’accompagnamento uno-a-uno costa di più dell’assistenza sociale. Ma è proprio ad uscire da questa logica ragionieristica che serve il dialogo fra Jean Vanier e Julia Kristeva. Certo, sarebbe meglio essere uno-a-uno, ma, non potendo, si può essere uno-a-cinque in tanti modi: fuggendo dalla diversità, cioè dal confronto con l’ignoto della propria vulnerabilità e con la paura della morte fisica e psichica oppure prendendo da quella diversità qualcosa per sé.
La Kristeva racconta ad esempio di come il figlio David, pur “circondato da me e dal padre di tanto amore, ma anche di esigenze e attività che non lo hanno mai tagliato fuori dal mondo, viva la propria solitudine con una serenità matura, che è divenuta per me un esempio e il miglior modo per andare incontro alla mia personale capacità di essere sola”.
Da non credente, Julia Kristeva è scesa ad Assisi sul terreno più congeniale all’”avversario”: il tema della persona umana. “L’umanesimo è in crisi – ha detto la filosofa – e dobbiamo ringraziare il Papa che ci ha riuniti per un tentativo di rifondazione”. A partire da cosa? Da ciò che abbiamo dimenticato, risponde la Kristeva.
Cioè che è vero che la “macchina-uomo” ha un motore potentissimo che la spinge e cioè il desiderio di conoscere ma che ha, o deve avere, anche un traguardo che è il bisogno di credere. Senza la prospettiva di una certezza ultima, la corsa dell’uomo diventa tecnicismo e “automatizzazione della specie umana”.
Per questa deriva, la Kristeva usa il termine di secolarizzazione: al Papa sarà piaciuto. Magari un po’ meno quella che la filosofa considera l’essenza dell’umanesimo: “processo di continua rifondazione, l’umanesimo si sviluppa necessariamente attraverso rotture che sono innovazioni. Conoscere intimamente l’eredità greco-giudaico-cristiana, metterla sotto rigoroso esame, “trasvalutare” la tradizione: non c’è altro mezzo per combattere l’ignoranza e la censura”.
Vito Giannulo, 2011
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.116