Ho scoperto Ombre e Luci da pochissimo tempo, anche se da tanti anni conosco l’ associazione Fede e Luce e ne condivido lo spirito ed i principi portanti che caratterizzano la sua essenza. Sono stata sempre sensibile al problema dei più deboli e indifesi e ho maturato la ferma convinzione del loro diritto al rispetto totale come persona completa nella sua interezza e del loro diritto all’amore, sempre.

Mi disturba l’idea che qualcuno possa considerare gli individui più fragili un peso per la società e per la famiglia. Ho accettato con gratitudine l’invito a scrivere su questa rivista perché sento il bisogno di condividere con i suoi lettori una mia esperienza vissuta in Messico nello scorso agosto: ho toccato con mano il significato delle parole accoglienza del più debole e amore.

Faccio parte di un’ associazione onlus, Setem-Italia (acronimo di Servizio Terzo Mondo), che ha come obiettivo principale la promozione e la formazione della persona umana e cristiana, rivolgendosi in particolare modo ai bambini che vivono nei paesi sottosviluppati, affinché, diventati adulti, abbiano gli strumenti necessari per vivere la loro vita non come oggetti che subiscono passivamente gli eventi, la povertà, l’emarginazione, lo sfruttamento, ma come soggetti in grado di costruire la propria vita autonomamente, con la dignità della persona umana.

Ogni anno, durante il periodo delle mie vacanze estive, effettuo dei viaggi nei paesi dove l’associazione sostiene progetti, per cercare di comprendere la realtà locale, verificare l’utilizzo degli aiuti, rilevare emergenze e necessità. Quest’anno sono stata con Mario C., un altro volontario Setem, a Città del Messico per capire cosa fossero gli Hogares Calasanz (Hogar in spagnolo significa “focolare”). Gli Hogares sono infatti case-famiglia che accolgono ragazzi di strada che hanno conosciuto solo violenza, abbandono, paura, disperazione, abusi, che non sanno cosa vuol dire essere amati. La finalità degli Hogares è quella di aiutare questi bambini/ragazzi a ricostruire la loro personalità, colmando il loro vuoto affettivo inserendoli in un ambiente che per dimensioni e impostazione è una vera famiglia, affinché sperimentino e apprendano il significato di amore, condivisione, fratellanza, rispetto di sé e degli altri, responsabilità.

Nella Casa 2 di Città del Messico vive Luis Angel. Padre Reyes, il responsabile delle case-famiglia, prima di farcelo conoscere, ci ha preparato all’incontro raccontandoci brevemente la storia del bambino e le sue condizioni attuali a molti mesi di distanza da un pauroso e fatale incidente con la bicicletta che ha sconvolto la vita di Luis Angel e della casa. Mi sono sentita subito invadere da un’onda di commozione perché mano a mano che ci parlava di quel bambino capivo che ci stava per presentare la persona della casa a lui più cara. Anche adesso che ne scrivo mi sento turbata.

La stanza di Luis Angel odorava di disinfettanti e, pur essendo organizzata come una moderna stanza di un reparto speciale ospedaliero era accogliente e a misura di bambino. Nel letto c’erano due grandi occhi neri che si sono accesi di luce appena è entrato padre Reyes. Questi gli ha parlato come se fosse ancora il bambino di prima, ma lo ha accarezzato in modo particolare, ben sapendo che non tutte le parole hanno ancora un significato per Luis Angel. Il bambino ha risposto con lo sguardo, cercando di emettere un suono e di stringergli una mano. Il trauma cranico è stato devastante e gli interventi di neurochirurgia non hanno potuto fare molto per migliorare la sua situazione.

Uscita dalla stanza col cuore che era diventato piccolo piccolo ho chiesto a padre Reyes se avesse mai pensato di non potere assisterlo a casa e di doverlo affidare ad una struttura pubblica, tenuto conto delle grandissime difficoltà di gestione della situazione e le esigue risorse economiche (i bambini vengono affidati ufficialmente alla casa-famiglia dal tribunale dei minori, ma non esiste nessuna forma di sovvenzione da parte dello stato, né per i bambini, né per la casa, pertanto anche la gestione ordinaria degli Hogares rappresenta un problema).

Non mi ha risposto subito, mi ha guardata fissa negli occhi, come se la risposta fosse superflua, poi mi ha detto: ”Come si può abbandonare il figlio più debole e indifeso? Lui ha bisogno di stare in famiglia e di sentire il nostro amore, solo così c’è la speranza di un qualche recupero e poi anche gli altri bambini della casa hanno bisogno di lui: lui è sempre Luis Angel. Difficoltà economiche? Sì tante, le spese sono indicibili: paghiamo due persone per l’ assistenza continua giorno e notte, un’infermiera, un fisioterapista, i medici, le medicine, ma non posso e non voglio arrendermi e conto sulla Divina Provvidenza e su coloro che rappresentano le Sue mani.” I miei occhi si sono riempiti di lacrime, padre Reyes mi ha sorriso e mi ha abbracciato. Io ho saputo dirgli solo “grazie”.

Anna Maria A., 2011

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.116

Due grandi occhi neri ultima modifica: 2011-12-04T09:35:14+00:00 da Redazione

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