È quello che dovremmo fare ogni tanto. È quello che Ombre e Luci propone ogni volta ai suoi lettori. Questa volta per capire, anche solo un po’, tanti nostri fratelli che, spesso, in un secondo, sono passati dalla vita normale a una vita diversa. Un incidente li ha sorpresi nel pieno delle forze e li ha portati su una sedia a rotelle. Non ci pensiamo abbastanza, li vediamo troppo poco soprattutto nelle nostre grandi città costruite senza tener conto di loro, delle loro difficoltà a muoversi, a circolare, come sarebbe giusto, in mezzo a noi.
Sono allora andata a ripescare un libro letto anni fa intitolato «Il Coraggio di Vivere» dell’editore Gribaudi. E stato scritto da Alain Lefranc, di ventanni, sui due anni di riabilitazione dopo un incidente. Alain ha avuto la forza di attaccarsi alla vita nonostante l’incidente che lo ha sbalzato all’improvviso nell’immobilità.
I passi scelti renderanno tutti capaci di capire meglio che cosa significa vivere sulla sedia a rotelle.
Mariangela Bertolini, 1992

È una storia banale, la mia, perché può diventare quella di chiunque, un giorno o l’altro. Non la scrivo per commuovere, ma, al contrario, perché chi non è stato colpito dalla disgrazia prenda coscienza d’essere un privilegiato, gioisca più intensamente della propria felicità.

Sono moltissimi gli handicappati fisici, giovanissimi, giovani…
Quanti, nella vostra città?
Quanti, nel vostro quartiere?
Commuoversi per un momento non serva a nulla. Proclamarsi solidali dovrebbe essere anzitutto sapere, capire.
Quanti hanno capito fino in fondo il duro cammino psicologico del ragazzo di vent’anni brutalmente immobilizzato?
Capito le aspirazioni dell’invalido, la sua volontà, le sue speranze, a volte persino la sua allegria?
Chi capisce, chi avrà capito tutto questo, non dovrebbe più sentirsi imbarazzato di fronte ad una sedia a rotelle, alle stampelle, ad arti artificiali o atrofizzati. Forse, chissà, scomparirebbero allora le barriere d’ogni specie. Quale stupenda aurora sarebbe… per i milioni di invalidi!
Rimasi qualche istante in equilibrio sul bordo esterno della barca, pronto a tuffarmi. A tuffarmi nella frescura invitante dell’acqua, a lasciarmene avvolgere. Qualche secondo… Poi, un colpo violento alla testa; non persi conoscenza, ma il mondo parve frantumarsi intorno a me. Ero immobile, sul fondo, la faccia contro la sabbia.

Né gli arti inferiori né quelli superiori rispondevano agli ordini che impartivo loro. Immobile.
Quanto tempo passò? Non lo so. Ma un secondo è sufficiente per fare di un ragazzo una vittima, per trasformare la gioia in tristezza, la vita in una tomba.
Il mio destino non mi apparteneva più. Era un po’ come se alle porte dell’ospedale avessi tacitamente sottoscritto un contratto che mi impegnava a non far più domande, a non prendere più iniziative, a diventare una cosa umile, un oggetto senza nome, rotto.

Ecco! Cero arrivato! Su una sedia a rotelle.
«Mai!», l’avevo pur detto. Eppure, in poco più di un mese di centro rieducativo le mie idee erano parecchio cambiale. Subito c’era stato lo choc: quelle sedie, tutte quelle sedie mobili; e il rifiuto: «Mai!» Non accetterò mai di sedermi lì sopra, mai, mai»; e poi la realtà aveva deciso altrimenti, tanto che le ruote e le cromature mi erano diventate famigliari.
Sedermi su una poltrona a rotelle non mi avrebbe certo impedito di recuperare, al contrario, permetteva di moltiplicare gli esercizi, di andare in sala di ginnastica, in ergoterapia, di evadere da una camera troppo monotona, di acquistare un po’ di indipendenza. Forse sarei riuscito a spingerla da solo, avrei di nuovo ritrovato un po’ di forza nei bicipiti… E così ero scivolato, senza rendermene conto, dall’odio verso le sedie a rotelle all’attesa di potermi sedere su una di esse, di contribuire alla mia rieducazione, poi al desiderio che quel giorno venisse presto. In effetti, è imprudente pronunciare la parola «mai», quando si riferisce al futuro!
Avrei dovuto vivere molti mesi in un centro di rieducazione per sapere che cos’è una gamba, un braccio, una mano. Non per questo, certo, avrei potuto evitare l’incidente, ma avrei vissuto in modo diverso, ricavando da ogni istante tutta la felicità che poteva offrire, come si fa di un frutto che si spreme fino alla polpa senza sprecare una sola goccia di succo. Avrei scelto altri valori. Avrei… Coloro che sanno dove sta la felicità non hanno i mezzi «fisici» per raggiungerla, e quelli che possono raggiungerla non sanno dove cercarla…

Mi restano pochi minuti per finire di prepararmi a difendermi dal mondo dei «sani», un mondo di scale, di porte strette, di barriere, un mondo di parole e di atteggiamenti maldestri, un mondo che ha fretta e che si dibatte anch’esso, non ha mai tempo, il tempo di fermarsi un momento per guardare, per capire; un mondo che mette dei puntini di sospensione ai suoi interrogativi. A volte generoso, troppo spesso crudele.
So che non finirò di combattere se non quando avrò ritrovato in questo mondo un posto attivo… che è riservato a ognuno di noi.
Perché non esiste invalidità abbastanza grande da impedire a un uomo di fare della sua vita la pietra, il masso o il granello di sabbia di un edificio utile. Perché non esiste bastone, o protesi, o apparecchio ortopedico, o sedia a rotelle che possa impedire a un uomo di tendere verso la vita, quand’anche dovesse trascinarsi per avanzare di un solo centimetro.

– Tratto da “Il coraggio di vivere”, di Alain Lefranc

Fermati un momento per capire ultima modifica: 1992-12-13T11:09:18+00:00 da Redazione

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