Mi trovavo sul treno diretto a Milano in uno scompartimento pieno. Vicino al finestrino c’era un giovane di circa ventanni. Dopo pochi minuti di viaggio il suo comportamento attirò la nostra attenzione. Si alzava senza motivo, si risiedeva, toccava il finestrino, apriva un giornale, lo chiudeva. Tutto questo movimento era accompagnato da grandi colpi, come degli schiaffi, alle cosce, alla valigia, al vetro. Lì per lì sembrava solo un irrequieto, un ragazzo un po’ nervoso. Lo lasciammo fare e, ora uno ora l’altro, dicevamo qualcosa per cercare di attenuare la tensione che il suo comportamento inconsueto stava creando.
Io, dietro il mio libro, lo spiavo per capire cosa avesse. Mi chiedevo cosa lo agitasse tanto e un sospetto si era insinuato in me come negli altri che, col passar delle ore, lasciarono lo scompartimento uno dopo l’altro. Rimasta sola con lui, azzardai le prime domande. Dove andava, voleva una mia rivista, aveva bisogno di qualcosa. Avevo un po’ paura delle mie frasi che uscivano non del tutto normali. Di solito, in treno, preferisco tacere, godermi un po’ di lettura; mi limito a rispondere a chi, ahimè, fa troppe domande. E ora, ero io per lui uno di quelli!
Avevo intuito che soffriva, ma non riuscivo a capire: era poco a posto con la testa? O era solo agitato da qualcosa che non lo lasciava tranquillo?
Dopo le mie timide domande, lui ha cominciato a parlare, a parlare… I gesti inconsulti si sono fermati d’incanto. Mi raccontava di una strana malattia non ancora spiegata dai medici che aveva consultato un po’ dovunque con i suoi genitori. «Hanno speso per me tutta la loro fortuna! E siamo ancora al punto di partenza. Sono così da quasi sette anni. La mia ragazza mi sta lasciando. Mi vuole bene ma i suoi hanno paura!» Niente alla testa, niente di neurologico, niente di niente. Solo ogni tanto non poteva più controllare gli arti che si muovevano per conto loro. «Allora, per mascherare, faccio di tutto. Mi alzo, faccio finta di guardare qualcosa, cerco di evitare che la gente se ne accorga…».
Alla fine del viaggio, mi ha salutato ringraziando di averlo ascoltato e incoraggiato raccontandogli di tanti ragazzi e bambini che…
Spesso il comportamento di alcune persone ci incuriosisce e ci chiediamo: «Perché fa così? Ma che cosa gli prende? Ma che cos’ha?»
Così accade normalmente con i bambini che sono capaci di far perdere le staffe ai genitori con le loro invenzioni bizzarre per e pur di attirare l’attenzione o per provare fino a che punto possono «comprare» dai grandi quello che vogliono.
Ma quando questi comportamenti strani li vediamo in chi non è più bambino, che atteggiamento prendere? E come distinguere il protrarsi di un comportamento infantile, quindi un capriccio, dai gesti o dagli atteggiamenti che vogliono invece comunicarci qualcosa: «Ho male, soffro, ho paura, non capisco, non so dire, ho provato ma…, sono timido, sono furioso, sono in rivolta!»
E dietro c’è…
I nostri fratelli che non sanno parlare, che faticano ad esprimersi ci lanciano il più delle volte questi messaggi senza parole. A volte, anche quelli che potrebbero parlare preferiscono comunicarle con l’atteggiamento o con i gesti. In fondo, anche a noi capita di fare altrettanto.
Sono atteggiamenti di passività: ripiegamento su se stessi, chiusure, silenzi ostinati. «Lui se ne sta buono buono, non dà mai fastidio». «Oh, per lui il figlio è come se non esistesse. Non ne parla mai!» «Io passo, non ho niente da dire». «Oh , se almeno parlasse, potrei capire cos’ha dentro». «Non so se soffre, non dice mai nulla!». E dietro c’è tutto un mondo da tirar fuori: timidezze, paure, insicurezze, delusioni, complessi d’ogni sorta.
Sono atteggiamenti di irrequietezza; instabilità, mancanza di concentrazione, agitazione continua, iperattivismo. «Non sta fermo un secondo!» «Guarda un giocattolo per due minuti e poi lo butta via». «Si alza dieci volte durante i compiti di casa!»«Una ne fa e dieci ne pensa». «Si dondola in continuazione». «Fuma, beve, mangia, parla, guarda la televisione, va al telefono; non c’è tempo di dirgli due parole…».
E dietro c’è insoddisfazione, disinteresse, svogliatezza, paura, bisogno di sfogarsi, fantasia repressa, genio incompreso, bisogno di veder realizzato qualcosa…
Jean Vanier
Sono atteggiamenti di violenza: aggressività, rabbia, rancore, ira. Fin da piccoli siamo abituati a colpire il tavolo contro il cui spigolo siamo andati a cozzare con la testa. Viene a tutti spontaneo punire chi o la cosa che ci ha fatto del male. Quante volte sfoghiamo la rabbia per un sopruso patito contro chi non c’entra per nulla. Non c’è da stupirsi allora se i ragazzi con difficoltà ad esprimersi manifestano con troppa evidenza l’inquietudine che hanno dentro per non essere capiti, per il confronto che avvertono di continuo con chi è «meglio di loro», per la delusione che provocano nei genitori e negli educatori. I modi con cui manifestano questo disagio sono, è vero, a volte sconcertanti, scomodi, intimoriscono. Ma è troppo facile fermarsi a chiedersi:«Ma perché sua madre non fa nulla?» «Perché non lo educa a controllarsi?» senza prima chiedersi se qualcuno ha mai aiutato quella povera mamma o provare a vedere se si saprebbe far meglio di lei. Senza dimenticare chi, incapace di manifestare sugli altri il proprio disagio, finisce col picchiarsi, col rivolgere su di sé il male che sente e che non può esprimere.
Per vivere insieme e comunicare tra noi abbiamo la parola e il comportamento (fatto di sguardi, di gesti, di silenzio, di riso, di pianto…). Ed è con il comportamento che riusciamo tutti, handicappati e non, ad esprimere meglio che con le parole il mondo delle emozioni o dei sentimenti, soprattutto quando sono troppo forti.
K. Gibran
E’ bene aver coscienza di questo per non lasciarci prendere troppo facilmente dalla paura o dallo sconcerto quando ci troviamo di fronte ai comportamenti un po’ strani o ai quali non siamo abituati soprattutto da parte di persone più deboli e quindi meno capaci di far uso della parola e del raziocinio; per convincerci che, se in certi casi è bene e consigliabile ricorrere a persone competenti (psicologi, neurologi, neuropsichiatri), è altrettanto bene ricordarci che tutti abbiamo bisogno e di imparare a capire, a tendere mani e cuore e a ricordarci insieme che tutti abbiamo bisogno di educazione, prima e dopo; quando siamo piccoli e ancora di più quando siamo grandi, per portare alla luce, fuori da noi e dagli altri quanto di potenzialmente buono è nascosto, quanto va incanalato o solo capito. Personalmente posso dire che spesso mi sono specchiata negli atteggiamenti bizzarri di bambini o di adulti con handicap mentale. Più immediato e più libero da certi nostri condizionamenti, il loro modo di esprimersi mi ha aiutato e non poco a riconoscere in me atteggiamenti di chiusura, di irrequietezza e di violenza. Senza tralasciare quanto il loro modo di esprimere l’affetto e la compassione per gli altri mi sia stato di grande esempio.
Devo a questo loro insegnamento l’essermi trattenuta accanto a quel giovane nel viaggio per Milano?
La paura, il disagio, l’impazienza, il «non spetta a me», il non saper come fare, il rispetto, sono spesso dei pretesti che accampiamo di fronte a chi si manifesta in modo «sconveniente» e preferiamo lasciare lo scompartimento uno dopo l’altro.
E se un giorno capitasse a noi di sentirci abbandonati?
di Mariangela Bertolini, 1987
Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.18, 1986
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