Quasi tutti i comportamenti sono anche sintomi e segnali di uno stato della persona. I comportamenti anormali, devianti come dicono gli specialisti, segnalano una sofferenza, un mancamento, una malattia della persona.

Fino a una quindicina di anni fa i ragazzi «difficili» spesso finivano in istituti di correzione che erano incroci tra collegio e prigione.

In quel tempo furono chiuse molte strutture di accoglienza dei minori, cosicché di molti di essi non si sapeva che fare. Nacquero allora diverse iniziative di accoglienza, solitamente con radice cristiana.

In particolare, in una città media del nord Italia cominciò un’esperienza di accoglienza di ragazzi difficili in comunità familiari, originale, di alto significato cristiano e, a giudicare dai risultati, efficace. Siamo andati a conoscerla. Ci hanno chiesto di non pubblicare nomi e neppure la città, perché non vogliono che qualcuno dei ragazzi ospitati, semmai gli accadesse di leggere questo giornale, si renda conto di fare anche parte di una organizzazione anziché di una famiglia uguale alle altre. Questa della «normalità» è una caratteristica essenziale di questa esperienza. Ma prima di parlare del sistema di vita e del metodo educativo, parliamo delle cifre, della nascita, del rapporto con le istituzioni.

Quanti e come sono arrivati

Attraverso questa «accoglienza» — racconta il sacerdote responsabile — sono passati circa 110 ragazzi.

Di solito arrivano fra 13 e 16 anni, dai servizi sociali, dalla questura, dal tribunale dei minori e sono in stato di abbandono. Rimangono nelle «famiglie» finché sono capaci di stare in piedi da soli, dopo 6, 8, 10 anni. Oggi una metà ha ottenuto questo risultato, 5-7 ci sembrano bloccati in situazioni senza via d’uscita, ma noi non chiudiamo con nessuno; gli altri sono in cammino con noi.

Al principio di questa esperienza c’è una comunità religiosa (appartenente a una congregazione regolare) che gestisce un pensionato per studenti, messa di fronte al bisogno di alcuni ragazzi che non si sa dove «mettere».

La comunità — ricorda — si guardò in faccia e decidemmo di stringerci un po’. In fondo, accogliere questi ragazzi non alterava poi tanto la nostra attività di «pensionato». Del resto alcuni di noi avevano anche esperienza di orfanotrofio.

Ci ritrovammo però presto sulla via di ricostituire l’istituto, una soluzione sbagliata per i problemi di quei ragazzi.

Così chiedemmo prima a un’anziana signora, poi ad altre famiglie, di accogliere qualcuno dei ragazzi. Accettarono. Arrivarono altri ragazzi. Crebbe il numero delle famiglie che venivano a conoscerci e alla fine accettavano «un altro figlio», o due.

Costituimmo due piccole comunità per la prima accoglienza e per le situazioni critiche, ma sempre sulla misura e nei modi di vita della famiglia. Io vivo in una di queste, che oggi ospita cinque ragazzi; l’altra ne ha due.

Rapporti con le istituzioni

Per avere rapporti ufficiali con le istituzioni (USL, Comune, ecc.) ci dovemmo costituire come associazione. Avrebbero anche voluto che noi avessimo titoli di studio e formazioni professionali nel campo dell’assistenza. Ma questa era una richiesta impossibile per noi: sia perché la nostra qualificazione si riduce quasi sempre alla disponibilità ad accogliere il ragazzo rifiutato e alla esperienza fatta in questi anni; sia perché la prima caratteristica del nostro modo di far crescere i ragazzi è la «normalità», incompatibile con un ruolo ufficiale e accademico di «educatore», di «tecnico». Però abbiamo dovuto adattarci alle esigenze dell’ente pubblico, che per altro ha fiducia in noi e al quale offriamo l’unica risposta disponibile per questi problemi.

Trovano uno specchio in cui specchiarsi invece di quelli deformanti e infranti nei quali si sono sempre visti e che li hanno resi delusi e scoraggiati

L’associazione è dunque la facciata ufficiale: è costituita da tutti gli educatori e ha responsabilità legale per i ragazzi. (Qui con il termine «educatore» indichiamo la persona che accoglie e condivide la vita con i ragazzi, perciò il genitore, il sacerdote, il volontario, l’obiettore di coscienza). L’associazione è guidata da una equipe che si incontra in genere una volta al mese ed è composta di due educatori più esperti e un assistente sociale, un neuropsichiatra e uno psicologo della USL. E’ equipe a stabilire quando un ragazzo ha bisogno di sostegno. Nelle famiglie, sia quelle composte di padre, madre e figli compreso quello aggiunto, sia quelle composte di volontari od obiettori e ragazzi (di solito 2 e 3 rispettivamente) la vita e i rapporti sono appunto come in famiglia. Si lavora, si va a scuola, si provvede alla casa, solitamente un normale appartamento in affitto.

Il mantenimento dei ragazzi è assicurato da convenzioni con la USL o il Comune, per una somma fino a un milione e mezzo di lire al mese. I ragazzi che lavorano contribuiscono alle spese di casa con il 60 per cento di quel che guadagnano.

L’equipe non ha quasi mai contatto con i ragazzi. Serve invece agli educatori nei problemi educativi e di relazione che incontrano.

L’altro sostegno agli educatori viene da una riunione settimanale, alla quale di solito partecipano i più giovani.

L’istruzione generale agli educatori, sia dalla équipe che dai responsabili, è: fate quel che potete, se non ce la fate, ditecelo. Sono rari i casi di ritorni di ragazzi dalle «famiglie» alle comunità di accoglienza per situazioni insostenibili: è più di un anno che non abbiamo ritorni.

Ombre e Luci n.18, 1987

Non educare ma essere

Il progetto educativo per questi ragazzi «difficili» è semplice da dire: consiste nel non cercare di educare, ma nell’essere normali, nel proporsi come persone normali vive e serene.

I ragazzi infatti vengono tutti da ambiente non equilibrati: o con troppi stimoli e confusione e non riescono a darsi una disciplina di vita, o con pochi stimoli (come gli istituti) e allora sono depressi, incerti, poco vitali.

I ragazzi sentono un profondo rancore per quel che non hanno avuto, anche se non sanno bene che cosa sia e tendano a identificarlo con le «cose»: per questo sono gran consumatori

Un blocco, quasi un handicap per questi ragazzi, e a dir la verità anche di molti altri, è non saper incontrare la persona, ma solo di identificarla in un ruolo, una parte, una posizione. Tanto meno perciò possiamo presentarci a loro con un ruolo, un abito. Così i religiosi devono in un certo senso spogliarsi dell’abito. La formazione cristiana che diamo è solo attraverso il nostro modo di essere. Questo vale anche nei confronti degli altri volontari. Non cerchiamo di convincere, non ci proponiamo come modelli. Il primo messaggio che trasmettiamo ai ragazzi è nell’essere lì, persone positive.

In assenza di una famiglia accettabile, i ragazzi si sono formati sui modelli proposti dai media, mai normali. Così perseguono il modello del super, del bello, del ricco, del potente, del trionfatore: ci tappezzano i muri, lo imitano. Dalla frustrazione che soffrono, si consolano spendendo soldi, «mettendo dentro gettoni».

E’ incredibile il valore che ha per questi ragazzi la famiglia normale, la persona normale che è tranquilla, ha inventiva, è «ricca» in quanto ha fiducia in se stessa, è contenta. La testimonianza che questo modello può esistere, anche se non appare un vincente secondo le regole dei media, ha il valore di una luce accesa nel buio. I ragazzi trovano finalmente uno specchio in cui specchiarsi invece di quelli deformanti e infranti nei quali si sono sempre visti e che li hanno resi delusi e scoraggiati.

Un altro sentimento comune dei ragazzi è di essere vittime di un’ingiustizia storica: essi non hanno ricevuto quel che ad altri è stato dato, anche se non sanno dire che cosa sia, e tendano a identificarlo con «le cose», per questo sono gran consumatori. In realtà la miseria economica dalla quale alcuni provengono, non è un fatto determinante, ma lo è lo squilibrio affettivo.

Noi cerchiamo di ricostruire l’equilibrio affettivo e vediamo che ci riusciamo quando, spogliandoci di tutto, a cominciare dal nostro ruolo di educatori, diventiamo validi come modelli e il nostro umore, il nostro sentirci bene e non intrappolati è strumento di misura del rapporto umano che si va formando con i ragazzi e li porta alla salvezza della normalità.

Fame di normalità ultima modifica: 1987-06-27T12:49:13+00:00 da Sergio Sciascia

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