Visita dal medico, incontro con l’educatore, contatti con i vicini… ci sono mille occasioni per i genitori di parlare con terze persone del loro figliolo: “Otto giorni dopo la sua nascita, il medico ci ha detto che non c’era nulla da fare.”
“Quante preoccupazioni ci ha dato! Notti insonni… Pasti durante i quali pensavo di diventare pazza…”
Guardatelo: non reagisce, non parla.E intanto si pensa che sia intelligente. Pare ci sia stato un blocco quando aveva due anni, il giorno in cui…”

Il bambino è presente. Si dice: “non importa, non capisce”, o se rischia di capire la conversazione basta usare alcuni termini un po’ più complicati e sapienti, È vero che il senso esatto delle parole gli sfugge, ma parecchie cose gli sono comprensibili.
Innanzitutto coglie che si tratta di lui. Senza volerlo l’abbiamo guardato. Il tono della nostra voce è cambiato, e lui percepisce un senso di tenerezza che lo avvolge. Insomma… egli sa.

… E capisce ancora, che noi siamo tristi a causa sua. La sua intelligenza è ferita, ma con suo cuore afferra più di quanto non sappiano fare gli altri. Non conosce i nostri ragionamenti o i nostri progetti, ma sente le nostre gioie e le nostre pene, la nostra speranza e la nostra amarezza. In questo campo non sbaglia.
È tutto qui, ma è terribile!
Che fare, allora?

Prima di tutto, evitare per quanto è possibile, le situazioni in cui si è portati a parlare di lui in sua presenza.
Se bisogna rifare la storia di Maria, per esempio, o dire al medico o allo psicologo o all’educatore le sue difficoltà, fate in modo che la piccola non sia presente. Chiedete di lasciarla nella stanza accanto, a giocare con le matite colorate che avrete pensato a portare con voi, o con dei giornali da strappare.
Se Maria non vuole tostare sola, senza una persona conosciuta, fato vi accompagnare dalla nonna o da un’amica che resterà con lei mentre voi parlate con il medico o altri.

Se i vicini o i parenti vi chie dono notizie o vogliono sapere la origine della sua malattia, non parlate davanti al bambino nè degli aspetti negativi nè di quelli dolorosi che lo rinchiuderebbero ancora di più nel suo handicap. Porse si potrebbe fare come la mam ma di Paolo che, in simili circostanze prende sempre le sue preesau zioni. Parla a nome di suo figlio per essere più sicura di trovare le parole e il tono giusto.

“Paolo vi direbbe che è stato male, da piccolo e che ha faticato molto a camminare, ma adesso può spostarsi se gli si dà la mano e può fare tante cose da solo; tenere il cucchiaio, lavarsi le mani, salire, a quattro zampe i gradini dell’ingresso. .. “
La bocca parla secondo ciò che. è nel cuore. Se cerchiamo di far crescere in noi l^amore e il rispet to per questi bambini che ci sono affidati, il desiderio di vederli progredire, la fiducia nelle loro possibilità, le parole che diremo ne saranno il riflesso, saranno parole creatrici.

Ogni giorno mettiamo al mondo i nostri figli, con quello che dicia mo di loro.

M. H. M – 1975

Quando parliamo di “loro” ultima modifica: 1975-05-03T11:30:22+00:00 da Marie Hélène Mathieu

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