Negli ultimi decenni le diagnosi prenatali sempre più precise, una diversa percezione sociale della disabilità e l’ossessione per il figlio perfetto, hanno determinato un profondo cambiamento del quadro epidemiologico delle disabilità. Il risultato è, attraverso test e aborti terapeutici, una minore nascita di bambini con alterazione del cariotipo. Allo stesso tempo, però, sono aumentati quelli che vengono definiti i disturbi del neurosviluppo, i più comuni dei quali sono rappresentati da disabilità intellettive, sindromi dello spettro autistico e disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD).

Ad esempio, se parliamo delle sindromi dello spettro autistico, nel 2000 si parlava di 1 bambino statunitense ogni 150 con una diagnosi di autismo, mentre attualmente la prevalenza è stimata essere circa 1 su 54 tra i bimbi di 8 anni. In Italia, invece, si stima che 1 bambino su 77, tra 7 e 9 anni, presenti un disturbo dello spettro autistico con una prevalenza maggiore nei maschi (4.4 volte in più rispetto alle femmine).

Si tratta di numeri in crescita che vanno seriamente considerati nei percorsi di accesso alle cure primarie e nel potenziale confronto, a livello territoriale, di minori o adulti con disabilità (e delle loro famiglie) con pediatri, medici di famiglia, guardie mediche, specialisti, consultori, cup, servizi di riabilitazione, assistenza protesica e integrativa, cure domiciliari, residenzialità piena o parziale, assistenza farmaceutica.

In ognuno di questi ambiti, gli attori principali sono le famiglie e i professionisti (medici e operatori di vari livelli e specialità). Le prime, troppo spesso sono lasciate sole fin dai percorsi di accesso alle terapie stesse; non solo per quelle avanti con gli anni ma anche per le più giovani, è difficile capire come accedere a un servizio, come reperire un telefono, come fare una prenotazione. Né molto meglio stanno i secondi: tra i professionisti, infatti, c’è una difficoltà reale e concreta nell’approccio a qualunque disabilità, nell’istaurare una relazione e un dialogo con la famiglia, soprattutto nella fase di accettazione della patologia.

Sulle disabilità giocano tante cose, e non siamo sempre in grado di farci i conti: c’è ancora molta paura, ad esempio, che il figlio venga giudicato, stigmatizzato. Una mia piccola paziente aveva evidenti difficoltà scolastiche; chiesi più volte alla madre di incontrare gli insegnanti, ma lei mi rispondeva che a scuola le dicevano che era tutto a posto. Quando poi sono riuscito a parlare con gli insegnanti, ho scoperto che anche loro chiedevano di parlare con me ma la risposta della mamma era la stessa: «Tutto a posto». Alla mia richiesta di spiegazioni, la signora mi disse: «Vogliamo fa’ la famiglia degli imbecilli?». Altri due suoi nipotini, infatti, avevano una diagnosi di ritardo cognitivo.

Mancano i neuropsichiatri, che sono figure indispensabili per confrontarsi, tracciare percorsi, seguire da vicino ambiti, come quello scolastico, in cui le dinamiche inclusive si fanno spesso difficili. Un ragazzino con la sindrome di Down potrà andare una volta l’anno dal neuropsichiatra; quello con una neuro diversità mediamente ci dovrebbe andare almeno tre volte. Molto spesso, soprattutto nelle fasi iniziali di valutazione, si impiegano ore. Quando, ritenendo che abbia bisogno di un sostegno scolastico, invio un bambino per una visita neuropsichiatrica, il primo appuntamento nel mio distretto è a un anno di distanza. Così Andrea, un ragazzino con notevoli difficoltà didattiche, era passato in prima media senza avere una valutazione. L’insegnante aveva evidenziato il problema con la mamma, spiegandole che senza la documentazione stilata da un professionista, non avrebbe potuto dargli una calcolatrice per svolgere il compito di matematica (come invece succedeva alle elementari). Andrea rischiava così di perdere l’anno scolastico, e cioè un anno di vita senza alcun supporto.

Non solo: dopo essere stati seguiti a lungo nel tempo, a 16 anni questi pazienti passano alla psichiatria, con logistiche completamente differenti per loro e per le famiglie. «Mio figlio autistico è guarito – mi disse una signora –, a 16 anni non ha bisogno più di niente, hanno tolto la logopedia. Meno male che ho una sorella non sposata che vive con noi, altrimenti non saprei veramente come gestire la giornata».

Noi medici facciamo innumerevoli progetti eppure durante la formazione si parla pochissimo di disabilità

Sicuramente l’accesso alle cure primarie per le persone con disabilità intellettiva rispetto a quelle con disabilità fisica è molto più gravoso: sono individui che hanno più di una patologia, diverse comorbidità. Spesso si cerca di trattare il problema principale, si rimandano così quelli “secondari”, ma patologie come le carie multiple o un ovaio policistico se trascurati incidono chiaramente sulla qualità di vita.

Anche da parte delle famiglie è evidente la difficoltà ad aprire diversi fronti in un quotidiano sempre faticoso da gestire. Sulla carta i servizi ci sono, ma non è detto che siano funzionanti o a pieno regime: quando ho organizzato l’invio di un paziente autistico al servizio odontoiatrico nel distretto competente, non hanno potuto far molto, mancando l’anestesista. Così la famiglia ha dovuto ricorrere a un dentista privato, affrontando una spesa considerevole.

Nel panorama della sanità pubblica, specialisti come odontoiatri, gastroenterologi o ginecologi che si interessino a pazienti con disabilità sono mosche bianche. Noi medici facciamo innumerevoli progetti: ci attiviamo (e ben venga!) sugli adolescenti, sui disturbi alimentari o sull’identità sessuale, eppure durante la formazione si parla pochissimo di disabilità. E le rare volte in cui avviene, ci si concentra sulle sindromi autistiche, come se la disabilità intellettiva fosse solo quella. Spesso non ci vengono forniti strumenti utili, tutto rimane legato alla sensibilità del singolo medico nell’interazione con il ragazzo e con le famiglie.

Sicuramente sono molto più fortunato di alcuni miei colleghi: il cammino fatto all’interno di Fede e Luce mi ha insegnato a guardare la persona nella sua interezza, a vederne non solo i limiti (sarebbe disonesto il contrario), ma anche ad accoglierne le potenzialità, le capacità di poter fare altro. Forse quel che manca davvero è la capacità di cogliere la persona nella sua interezza.

Una volta accompagnai in sala operatoria un ragazzo autistico che doveva curare un’ernia inguinale: lì toccai con mano le difficoltà dei medici. Il collega chirurgo, infatti, non capiva il limite relazionale di Roberto poiché gli era stato riferito che il ragazzo andava all’università, prendeva il pullman da solo per andare e per tornare. Ebbene, queste autonomie ai suoi occhi significavano che Roberto stesse facendo un capriccio nel suo bisogno di essere accompagnato da una persona amica.

Atteggiamenti simili, e cioè la non comprensione dettata dalla non conoscenza, sono ancora molto diffusi. Nella sala d’attesa del nostro studio associato di pediatri di famiglia mi è capitato di incrociare lo sguardo di una madre difronte a pazienti in attesa i quali, schiacciati sulle loro sedie con le schiene al muro, mostravano chiaramente preoccupazione difronte alle strilla di suo figlio, un bambino autistico. In quello sguardo ho scorto la sua abitudine alla paura delle persone difronte al figlio, ho visto il disappunto e la stanchezza verso sguardi cui lei dovrebbe, ogni volta, dare spiegazioni. Le famiglie si abituano, si stancano, invecchiano.

Alcune disabilità intellettive, poi, diventano psichiatriche. Nella mia comunità di Fede e Luce ci sono la signora T., 86 anni e vedova, e sua figlia Anna, sessantenne. «Sono 60 anni che combatto e ora al centro diurno, dopo due decenni – mi dice T. – Anna non la vogliono più perché appena finisce di mangiare, vuole sparecchiare per tutti». Anna, infatti, è diventata una paziente psichiatrica: a casa il cancello deve stare permanentemente socchiuso, e chiaramente la preoccupazione è tanta vista l’età delle due donne. Alla decisione del centro, T. ha risposto rassegnata e senza intenti polemici: «Siete voi i padroni. Decidete voi che cosa fare». Ma chi sa di Anna? Probabilmente neanche il medico di famiglia. Anna ha una sorella che abita al piano di sopra: se ne cura forse? Perché non la portano da un neurologo? Le dinamiche familiari sono complesse e, da amico come sono in questo caso, non ho diritto di esprimere giudizi. Rimane certo che quel residuo di qualità di vita che Anna poteva avere, ora si è totalmente perso: il sistema sociale e assistenziale non si cura di lei.

Spero di sbagliarmi ma, come medico e per l’esperienza a Fede e Luce, resto con l’amara sensazione che le persone con disabilità siano considerati come cittadini di serie B. Cittadini che si devono accontentare di quel che ricevono. Quanto viviamo in Chiesa mi sembra un riflesso di ciò che vediamo nella società: c’è spazio per il bambino, per il giovane, per l’anziano, per la coppia, per il separato. Ma raramente si hanno tempo e spazio per la persona con disabilità. Il nocciolo resta sempre lo stesso: chi sono per noi? Viene prima la disabilità o la persona? Se viene prima la disabilità, la persona sarà sempre un individuo di serie B; se viene prima la persona, al contrario, sarà esattamente come qualunque altro cittadino.

Se ripenso alla mancanza di conoscenza o ai pregiudizi, mi rendo conto che se anche tanti passi sono stati fatti, c’è però ancora tanto da fare da parte dei medici, della scuola, della Chiesa, delle famiglie che non vanno lasciate sole. La vera inclusione, mi sembra, è ancora lontana.

Questo articolo è tratto da
Ombre e Luci n.165

 

 

L’interezza, questa sconosciuta ultima modifica: 2024-02-16T12:36:20+00:00 da Antonio Piscitelli

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