La prima volta che sento parlare di vending, ammetto, cado dalle nuvole: non so proprio a cosa si riferisca quel termine inglese; a parlarne poi è un prete che arriva dal Cottolengo di Torino e racconta di come questo vending abbia costituito l’idea per un’impresa sociale che dà lavoro a ragazzi con autismo. Eravamo a Roma, nel 2018, al seminario promosso dal Redattore Sociale per sensibilizzare il mondo della comunicazione all’uso delle parole per raccontare la disabilità. Quel sacerdote, ora poco più che quarantenne, è don Andrea Bonsignori, autore con Marco Ferrando de Il coraggio di essere uguali. L’impresa diversamente automatica di Chicco Cotto (Edizioni Terra Santa, 2020) nel quale narra come è andata l’esperienza di cui ci raccontava al seminario, delle macchinette distributrici di caffè, bevande e spuntini (detto in una parola, vending) che gestisce e rifornisce la cooperativa Chicco Cotto. Impresa sociale che Bonsignori ha contribuito a fondare e far crescere fino a essere appetibile sul mercato e arrivare a contaminare, con le sue peculiarità, altre realtà ben più grandi.

Bonsignori, che conosciamo qui soprattutto per questa esperienza, ha la formazione di pedagogista, con un interesse particolare per la didattica inclusiva; per la maggior parte della giornata è direttore della scuola privata paritaria del Cottolengo di Torino; ma anche consigliere della Fondazione Italiana per l’Autismo e appassionato di rugby, calcio, musica…. ci vorrebbe un libro in più solo per raccontarlo. Pare rifugga i complimenti: il merito vero ce l’ha la Provvidenza della quale – diceva in un’intervista – lui è solo un manovale. La Provvidenza ce l’ha nel dna di famiglia, quella cottolenghina cui appartiene; in più sembra proprio non accontentarsi di mantenere i traguardi raggiunti e cerca, con ogni progetto volano di normalità, di costruire un «piccolissimo pezzo di mondo un po’, anche poco, più giusto». Il presupposto è che stare insieme, alla pari, disabili o no, per lo sport, nella scuola, al lavoro… fa bene, davvero, a tutti.

Lo provano l’esperienza dell’associazione sportiva GiuCo ‘97 che partecipa ai campionati di tutti con le sue squadre integrate (dove in un mix proporzionato di giocatori con disabilità e senza ­- a giudizio insindacabile del mister – si impara a raggiungere il goal con tattiche diverse, dove gioca chi si allena come si deve e dove può capitare che un fallo venga salutato da un gran sorriso perché segno dell’esser visti come normali avversari); o quella della scuola che ha ottima reputazione per l’accoglienza e l’integrazione di bambini in differenti condizioni di salute, sociali e culturali (cosa non poi così frequente, dobbiamo ammettere, per una scuola privata religiosa); e la realizzazione del progetto di scuola lavoro (quello legato al vending per l’appunto) che offre continuità all’impegno avviato nella scuola degli alunni con disabilità. Tre settori che non rimangono compartimenti stagni ma che contribuiscono, ciascuno con le sue specificità, alla crescita della persona handicappata (non c’è alcun timore ad usare questo termine che ci avevano praticamente bandito a quel seminario…) e a quella della comunità di cui fa parte, visto anche l’impegno con la Fondazione nel promuovere la conoscenza, la ricerca e l’educazione sull’autismo.

Il vending non era stato il primo comparto produttivo sul quale il don aveva fantasticato per un lavoro dei giovani che aveva affidati: c’era stato quello dell’oreficeria, dell’assemblaggio o della meccanica… tutte attività che richiedevano ordine, meticolosità e ripetitività, spesso caratteristiche delle persone con autismo. Poi, difronte a un tavolo con caffè e biscotti a disposizione nella sala relax della scuola (della cui gratuità qualcuno si approfittava un po’ troppo) si fa strada l’idea di chiedere l’installazione di macchinette automatiche. Ma chi le distribuisce reputa non conveniente la posizione della «scuola per handicappati». Così il don decide che «se le macchine non ce le danno, ce le mettiamo noi. Le troviamo, le portiamo qui e poi le gestiamo noi». Siamo nel 2015: l’intervento di un importante sponsor, che “intercede” con il distributore di macchinette perché ne dia due, le prime di una lunga serie, sblocca la situazione.

Giuseppe, un ragazzo autistico nella scuola da quando aveva sei anni, è il primo a esser coinvolto: la famiglia coglie l’occasione di un cambiamento almeno nella routine, anche senza grandi certezze per il futuro. Poi se ne aggiungeranno altri come lui. L’impresa nei due anni successivi cresce, trova una sua collocazione, si tiene in piedi da sola senza più donazioni, ha un piano industriale serio e sostenibile e comincia anche a dar noia alla concorrenza. Uguali per davvero!
Uguaglianza e dignità passano anche nell’impegno a far bene, curando al massimo la qualità del servizio offerto senza alcuna approssimazione. La macchinetta in questo è perfetta nello spingere a far sempre meglio perché “neutra e zitta”: il cliente finale sceglie di servirsi ad una o all’altra per la bontà del caffè o per la qualità degli spuntini proposti e non per il disabile che ci ha lavorato. Questo cambio di prospettiva è decisivo per la filosofia del Chicco Cotto e ne ha fatto l’impresa capace di stare nel mercato di cui stiamo parlando. Il loro lavoro è così ben fatto che, ad un certo punto, qualcuno chiede dove fossero le persone con handicap che, gli avevano promesso, avrebbero rifornito i distributori… Per poi accorgersi che c’erano, ma non li vedeva perché “normali dipendenti”.

In Italia, l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, soprattutto quelle con disabilità mentale, lascia davvero a desiderare. Garantito dalla legge 68 del 1999, dispone anche che la mancata assunzione di un numero congruo di persone con disabilità rispetto ai lavoratori normodotati comporti il pagamento di una multa. È abbastanza noto che molte aziende preferiscono farsi carico della multa prevista piuttosto che assumere un lavoratore disabile. Difronte al quale spesso sorge la paralizzante questione del “cosa gli faccio fare?”. Ricordo ancora lo sconcerto provato diversi anni fa nel sentire, mentre rivolgevo una richiesta ad un usciere di un ufficio comunale – evidentemente con alcune difficoltà ma seduto dietro ad un vetro con su scritto “Informazioni” e quindi per me scontato che potesse rispondere – un’altra dipendente gridare “Di qua per le informazioni! Non lo vede che è handicappato?”. Quale dignità lavorativa per quell’uomo? Magari sarà stato un caso isolato? Certo conosco altre persone che pur svolgendo semplici incarichi portano il loro contributo al funzionamento dell’ufficio. Come dice Bonsignori, «sarebbe bello se anche l’handicap avesse un percorso normalizzato di dignità e lavoro. Certo è un’utopia, ma solo i grandi ideali ci spingono e se non sarà la società ad essere accogliente… beh, saremo noi che metteremo macchinette ovunque». Con la Chicco Cotto un passo in più alla fine è stato fatto e l’invasione nel vending può dirsi cominciata: come si conviene alle imprese più innovative, quelle più grandi se ne interessano e le acquisiscono. Ed è successo anche per loro: un po’ la fine del lievito nella pasta speriamo, perché ora il loro prezioso know how è la formazione puntuale delle persone con disabilità che possono essere inserite a pieno titolo in quel percorso normalizzato auspicato da Bonsignori.

Far lavorare come dipendenti normali delle persone con disabilità non è affatto scontato: l’impressione è che quel diritto cui ci si appella per avere un lavoro sia un favore che serve solo a rimarcare la distanza tra disabili e no. Sono tante le riflessioni a margine che Bonsignori condivide con noi lettori e che aprono il nostro sguardo su tutto quello che comporta ricercare un vero cambiamento di prospettiva verso la disabilità e che un’impresa aperta al rischio porta a galla: «considerarla un peso per la società o una chiave per migliorarla?» Bonsignori constata le difficoltà, gli ostacoli e le reticenze posti sul cammino anche da chi non ci si aspetterebbe, compresi i familiari e le istituzioni, anche quelle più vicine nello spirito ma, a volte, non nelle prospettive. Delle complessità inevitabili nei rapporti con le persone che ruotano attorno al progetto e che ne sono parte fondamentale come dipendenti o volontari. Ma l’importante sforzo richiesto a tutti è più che inclusivo… inclusivo non basta… deve essere “normale” e comporta rinunce, compromessi ma anche grandi soddisfazioni: quel “portare dentro qualcuno”, suggerito dal termine inclusione suona come un favore, un’eccezione. Molto meglio, secondo lui, pensare ad “agire sulla società, per renderla più aperta” con azioni di “straordinaria ordinarietà”: la strada dell’impresa sociale, capace di mediare tra profitto e bene comune, potrebbe essere una di queste.

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Il coraggio di essere uguali ultima modifica: 2020-11-11T09:10:52+00:00 da Cristina Tersigni

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