Dopo la presentazione del P. Michel Charpentier sono intervenuti la sig.na Francesca Cremonesi (direttrice di un centro per gravi di Piacenza) la sig.na Valeria Levi della Vida (studentessa in medicina), la sig.ra Menegottio (mamma di un ragazzo handicappato), il Dott. Sergo (specialista neuro psichiatra), il sig. Jean Vanier (fondatore di Fede e Luce).
Non potendo trascrivere qui per intero tutti gli interventi, riportiamo in parte quello di Valeria Levi e di Jean Vanier.

Valeria

Vorrei esprimere il mio punto di vista, quello dei giovani che dovrebbero rappresentare nella società quella forza nuova di cui tanto spesso parliamo. Dico “dovrebbero’ perché spesso siamo noi per primi, noi giovani, che non ci accorgiamo degli handicappati, di questi nostri fratelli.

Qualche giorno fa sono andata a trovare all’uscita dalla scuola un mio amico distrofico (la distrofia è una malattia che colpisce e distrugge i muscoli ed impedisce man mano anche i movimenti più semplici).

Appena finita, la scuola, tutti i regazzi sono usciti via correndo. Siamo entrate nella classe la mamma del ragazzo ed io; lui cra lì da solo, con i libri ancora in disordine. La scena mi ha lasciata di sasso: non esisteva un compagno che potesse aiutarlo a riordinare i libri, accompagnarlo con la carrozzella lungo i corridoi, aiutarlo nelle scale?

Noi diciamo sempre che dobbiamo dare il diritto alla vita, però questo tante volte non lo facciamo.

Sono accaduti tante altre volte esempi di amicizia, interesse profondo tra handicappati e non, però mi sembra importante che tutti noi, sia giovani sia non più giovani, capiamo ed impariamo ad essere tutti un po’ più fratelli tra noi, includendo naturalmente anche gli handicappati.

Io credo che l’impegno di tutti dovrebbe essere più nelle piccole, un sorriso, un piccolo aiuto quan do ce n’è bisogno, una mezz’ora ogni tanto ma… sempre; più che nelle grandi azioni sociali, nei grandi discorsi che rimangono vuoti e privi di senso.

Quello che io chiamo “impegno” non significa – per me naturalmente – né una questione di azione sociale, né un mettersi a
posto la coscienza, né un’opera cristiana per un paradiso che verrà chissà quando: non è assolutamente questo.

Quando io vado alle riunioni di Fede e Luce non vado per dare, per essere la brava persona che va per dare qualcosa. Vorrei veramente imparare quando vado lì, a capire cosa vuol dire una vera amicizia, imparare a sorridere anche quando non se ne avrebbe voglia, imparare ad avere un ritmo di vita un pochino più calmo, un pò più semplice, senza tante sovrastrutture che spesso ci distolgono da quello che è il vero senso della vita.

Valeria Levi della Vida, 1975

Jean Vanier

Quando una persona umana vive, ha una speranza e questa speranza è verso una crescita per fare qualcosa di più.

Per la persona ferita, perchè essa viva, è necessario che una speranza ed una crescita siano possibili, ed essa annuncia questa speranza attraverso il linguaggio. È necessario che le persone che le sono accanto comprendano il suo linguaggio. Posso essere fratello solo se comprendo quello che mio fratello dice.

C’è il linguaggio della parola, il linguaggio dei gesti, il linguaggio del silenzio.

Quando un bambino bagna il suo letto, questo può essere un linguaggio perché ogni gesto del bambino, ogni sua parola dice qualcosa a quelli che gli sono intorno. Quando un bambino grida o piange, anche questo è un linguaggio, è un linguaggio che dice: io ho bisogno di te. Quando si va in un ospedale e si vede che nessun bambino piange, anche questo è un linguaggio,: il linguaggio della disperazione. Perchè se un bambino ha piantò molto e nessuno ha risposto, ad un certo punto smette di piangere ed entra nella disperaziore.

Per questo il silenzio è anche esso un linguaggio; il viso è un linguaggio; gli occhi sono un linguaggio. E quando qualcuno desidera qualcosa, quando una persona ferita desidera qualcosa, forse il suo desiderio non corrisponde al mio desiderio ed è in questo momento che non lo voglio ascoltare, ho difficoltà con la persona ferita, col bambino ferito. Spesso noi abbiamo la nostra idea di quello che lui deve fare, vogliamo metterlo all’interno delle nostre convenzioni, abbiamo paura che faccia gesti bizzarri, che facciano sì che coloro che ci circondano lo reputino un bambino idiota.

Il pericolo dei genitori, degli amici, degli educatori è di voler rendere il bambino “convenzionale”, cioè che lui entri nelle nostre con venzioni, che mangi bene, che sia educato… Ma questo è il “mio” desiderio su di lui: qual’è il desiderio, l’appello, la speranza del bambino?

Questa è la nostra sfida: siamo noi abbastanza disponibili, abbastenza veri per veramente ascoltare e capire il suo linguaggio? Anche se il linguaggio della sua libertà va contro ciò che io desidero?

La persona ferita, fragile ha spesso paura di esprimere i suoi desideri perchè il suo desiderio, la sua speranza sono assai fragili e lei sente intorno a sè il desiderio di quelli che la circondano, il desiderio che lei sia come gli altri, il desiderio che non pianga ed agisca in modo conveniente. A questo punto essa ha paura di esprimere il “suo” desiderio. Per questo credo ‘che la cosa più importante per un genitore, educatore o amico di una persona fragile sia di porre a noi stessi questa domanda: “So ascoltare, oppure impongo il mio desiderio?”.

Si parla molto dell’amore. Sapete cos’è l’amore? L’amore non è proteggere, tenere stretto, accarezzare. L’amore prima
di tutto è essere felici con chi è davanti a me e accettarlo così com’è, come un dono di Dio. E la seconda cosa dell’amore è di volere che lui, il fratello più debole, progredisca secondo la musica del suo proprio essere, che viva secondo il suo essere e non secondo i miei desideri.

In queste due situazioni dell’amore bisogna che noi sappiamo prima di tutto ascoltare e accogliere l’altro quale egli è, che impariamo a capire il linguaggio che lui parla, il linguaggio dei suoi gesti, della sua bocca, del suo viso, e che ci ricordiamo che ogni gesto ha un senso.

Se il bambino rompe qulacosa non si tratta di punirlo e di dirgli di non lo rompere. Bisogna ricordarci che prima di quel gesto lui ci vuol dire qualche cosa: “io non sono contento, sono triste, sono qualche cosa”. E se rompe una cosa, questo ha il suo significato.

Per questo è importante capire i gesti del linguaggio e nello stesso tempo avere nel nostro cuore una grande speranza: la speranza che lui ‘crescerà secondo il suo proprio dinamismo fino ad essere totalmente quello che deve essere nel piano di Dio.

Jean Vanier, 1975

Questo articolo è tratto da:
Insieme n.7, 1975

Tavola Rotonda ultima modifica: 1975-12-03T14:40:34+00:00 da Redazione

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